Una perdita di tempo

Il senatore Di Maggio ha già definito su queste colonne “fuori legge” il processo avviato dalla Procura Generale di Palermo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. La lettura, faticosa ma che mi è parsa necessaria, della lunga trascrizione dell’interrogatorio al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferma in pieno questa valutazione.

Per più di tre ore, due Pubblici Ministeri e alcuni avvocati di parte civile o della difesa hanno posto al Capo dello Stato, spesso in modo ripetitivo, questioni di cui non si capiscono bene né il senso né gli obiettivi (il difensore di Riina ha brillato in questo, ma i PM non sono stati da meno), tentando di fargli dire cose e fare valutazioni del tutto al di fuori della sua possibile conoscenza, della sua capacità di ricordare e talvolta anche della  legittimità legata al suo altissimo ruolo istituzionale. Per esempio cercando di forzare oltre l’accettabile l’interpretazione del pensiero e delle preoccupazioni di un defunto, il dottor D’Ambrosio, che – come ha ricordato il Presidente della Repubblica – merita tutto il rispetto possibile per il suo lungo servizio pubblico. Ovvero formulando questioni le cui risposte sono facilmente ricavabili da una montagna di documenti ufficiali, tra cui dichiarazioni del Governo e atti parlamentari (come quando il PM ha insistito nel tentativo di far dire a Napolitano se ci fossero state resistenze di alcuni gruppi od esponenti politici all’introduzione dell’art.41 bis), o da articoli di stampa e libri scritti da protagonisti o testimoni di quell’epoca. Questioni che talvolta lo stesso Presidente della Corte ha dovuto definire irrilevanti, futili o malposte e in alcuni casi respingere.

L’impressione che se ne trae è di un assoluto e nauseante vuoto, perlomeno per tutto quanto si riferisce alla ipotetica partecipazione del Capo dello Stato,  anche tangenziale, ad eventi di venti e più anni fa. Giorgio Napolitano ha dato un’ulteriore prova di senso dello Stato e sensibilità democratica accettando l’interrogatorio e sottoponendosi di buon grado a tutte le domande, alle quali ha risposto in modo chiaro ed esuariente. Ne è uscito ingrandito e solo la immensa malafede grillina può non rendersi conto che, a luogo di “trascinare le istituzioni nel fango” come ha detto il comico genovese nel suo blog, il Presidente ha ancora una volta contribuito a rafforzarle.

Ma è legittimo chiedersi: era necessario tutto questo? Era giusto impegnare ore della vita del Capo dello Stato e trasferire a Roma un’intera Corte d’Assise per il nulla? E non è possibile non porsi una domanda ulteriore e più inquietante ancora: se tutto quello su cui si basa l’accusa nel processo di Palermo sono fumose ipotesi circostanziali, sentito dire, speculazioni su fatti politici arcinoti, è giusto, è serio, impegnare una Corte d’Assise e spendere senza riguardo fiumi di denaro pubblico per montare un processo che per ora è solo fumo?

Io ho scritto tempo fa su queste colonne che, se anche alcune Autorità dello Stato avessero ritenuto di impedire un ulteriore aggravamento dell’azione eversiva delle cosche (e quindi altro sangue, altre distruzioni, altre vittime innocenti) con qualche alleggerimento nelle condizioni dei detenuti nelle carceri speciali, avrebbero agito nell’ambito di una responsabilità politica non rilevante sul piano penale. Se cosí fosse, sarebbe giusto chiederne conto in sede politica a chi governava a quel tempo (Carlo Azeglio Ciampi, Conso, Mancino, ma certo non a Giorgio Napolitano). Quindi, casomai, una commissione parlamentare d’inchiesta. Ma perché un processo?

Una triste coincidenza. La Magistratura che non ha ritenuto di fermarsi  neppure alle soglie del Quirinale, è la stessa che restituisce De Magistris, condannato per abuso d’ufficio, al suo incarico di Sindaco di Napoli, dal quale era stato legittimamente sospeso in esecuzione di una chiara legge dello Stato. Allora, purtroppo, viene di fatto di chiedersi: cos’è la Legge per certi magistrati? È una domanda scomoda, soprattutto per chi, come chi scrive, pensa che il ruolo di una Giustizia indipendente sia vitale per il sano funzionamento di una democrazia e incline a credere che “fiat justitia et pereat mundus”.  Ma come non porsela in queste condizioni? Come non reagire di fronte allo spettacolo di una Giustizia, spesso in situazione conflittuale al proprio interno, che corre appresso alla popolarità non esitando a montare costosi castelli di carte e poi volta gli occhi di fronte a violazioni chiare e constatate della legge? Può darsi che il Consiglio di Stato rovesci la decisione del TAR di Napoli relativa a De Magistris, perché nessuno (ce lo ha ancora una volta insegnato Giorgio Napolitano) è al di sopra della Legge. Ma il male è fatto e la gente, a Napoli e altrove, non capisce più nulla.

Ripeto: è sano, è serio tutto questo? La conclusione è, purtroppo, negativa. Abbiamo una Giustizia distorta e malata. È tempo che Governo e Parlamento cerchino di sanarla e che l’intera opinione pubblica li sostenga, per vincere le ovvie resistenze corporative.  Non per sottometterla al controllo politico (Dio ne scampi!), ma per affermarne la vera indipendenza, che è indipendenza non solo dagli ordini “di sopra” ma anche dalla proprie passioni, da paraocchi ideologici e dall’ansia di popolarità.

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