Obama, già anatra zoppa?

Le elezioni americane di medio termine, consegnando la maggioranza ai repubblicani in ambedue le camere del Congresso, hanno costituito senza dubbio una sconfitta per il Presidente Obama. Perché è accaduto?  Cosa accadrà adesso? Condivido molte delle analisi che ho letto in questi giorni, ma non tutte.

Va detto che le elezioni di medio termine sono, per regola generale, pericolose per chi è al governo. Questo è un fatto ormai comune alle maggiori democrazie occidentali (ricordiamo che D’Alema perse pesantemente le elezioni locali del 2000 e Berlusconi quelle del 2011, e Hollande ha perso sia le elezioni locali che quelle europee). In una democrazia seria, stare al governo dà, dal punto di vista elettorale, pochi vantaggi (a parte una maggior presenza sui mezzi d’informazione) ed espone invece  allo scontento di chi (ed è spesso la maggioranza) non è soddisfatto dell’opera delle Autorità e le ritiene responsabili delle difficoltà generali e personali. Per l’opposizione è facile criticare e promettere di tutto (dimenticando opportunamente le carenze di quando al governo ci stava lei), ma chi ha la responsabilità di governare deve tenere conto di una realtà spesso dura, e tante volte meschina. Questo non accade nei regimi autoritari, in cui il Governo dispone del monopolio dell’informazione e della propaganda, controlla la Giustizia e condiziona i processi elettorali, e non succede nei regimi  formalmente democratici ma populisti (tipo Venezuela), dove il Governo distribuisce a man salva benefici sociali rovinosi per le casse pubbliche ma graditi a chi li riceve e teme di perderli  se vince l’opposizione.

Questa regola, che si applica anche agli Stati Uniti, anche se in misura minore che nei regimi parlamentari, è segno di una certa maturità democratica, se democrazie è (anche) alternanza. Spesso, a determinare gli spostamenti dell’elettorato, è l’economia. Nel caso di Obama, l’economia però andava assai meglio che negli anni di Bush e si è lasciata alle spalle la terribile crisi del 2008. Devono dunque aver pesato altri fattori. È lecito pesare che una parte dell’elettorato di Obama si sia sentito deluso dai risultati della sua azione in materia sociale. Tante speranze, tante emozioni, tanti sogni, con un risultato assai modesto. È vero che la responsabilità è della destra conservatrice che ha paralizzato i più ambiziosi programma del Presidente, ma l’opinione pubblica vede i risultati e fa un ragionamento semplice: ha promesso tanto, non è riuscito a realizzare molto. Voltiamo pagina! Questa disillusione offuscava anche gli ultimi mesi della  presidenza Kennedy, passato l’innamoramento collettivo per il giovane Presidente e l’ammirazione per la sua gestione della crisi dei missili russi a Cuba, e oggi molti si chiedono se, ove non fosse stato assassinato, Kennedy sarebbe riuscito a rimontare la china e conseguire la rielezione. Era accaduto a lui quello che è accaduto ad Obama: i suoi programmi  “liberal”gli hanno valso l’odio mortale della destra e il loro relativo insuccesso (specie in materia di diritti) ha allontanato da lui molti suoi sostenitori, specie tra le persone di colore.

Tornando a Obama, resta da vedere fino a che punto abbia influito la gestione della politica estera. In Europa è stata spesso (e ingenerosamente) definita debole, incerta, eccessivamente cauta etc. (si preferiva il guerrafondaio Bush?). Ed è certo che attacchi sono venuti anche da parte dei  settori più retrogradi, quelli per cui i problemi si risolvono  con una bella invasione o un bombardamento  a tappeto, magari atomico. Per quello che ne so, tuttavia, negli Stati Uniti la maggioranza ha apprezzato l’autocontrollo di Obama e il fatto di non aver mandato giovani americani a morire in una nuova guerra. Non credo dunque che la politica estera abbia svolto un ruolo primordiale nella sconfitta.

Cosa attende il Presidente nei due ultimi anni di mandato? Con un po’ di superficialità (e magari di “shadenfreude”, o godimento inconfessato), qualche solone della nostra stampa ha parlato di Presidente dimezzato, di “anatra zoppa”. Vero solo in parte.  Che aver perso la maggioranza anche al Senato (già non l’aveva nella Camera dei Rappresentanti) tagli le ali ai programmi presidenziali di politica interna, va da sé. Ma questi programmi erano già stati ridimensionati o, in alcuni casi, accantonati. E non tutti i democratici nel Senato li appoggiavano (i democratici del sud sono spesso più conservatori di molti repubblicani). Se Obama vorrà far passare qualche modesta iniziativa nei prossimi due anni, dovrà negoziarla faticosamente. Neppure la  nuova maggioranza repubblicana potrà però fare quello che le pare. Il sistema americano è fondato sull’equilibrio dei poteri e il Presidente mantiene fino all’ultimo il potere di veto su ogni iniziativa del Congresso e sono certo che Obama, se del caso, lo userà (come ha fatto in alcune occasioni in passato).

Ma nel settore della politica estera e in quello, collegato, della sicurezza, Obama conserva la pienezza dei poteri, che la Costituzione gli attribuisce e che neppure il più fiero oppositore gli contesta. La politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti continuerà a dirigerla lui. È bene tenerlo presente, se si non si vuol cadere, fuori degli Stati Uniti, nell’errore di credere Obama ormai irrilevante sulla scena mondiale.

Nei due anni restanti è prevedibile  che l’azione del Presidente si concentrerà soprattutto in questo settore dove, ripeto, resta protagonista. Di problemi da affrontare ne ha tanti. Per menzionare solo i più pressanti: questione ucraina, sicurezza atlantica e relazioni con la Russia, situazione in Siria  e in altri Paesi arabi, e minaccia del terrorismo islamista. Su quest’ultimo fronte, qualche successo pare che i raid aerei lo stiano conseguendo, la resistenza curda pare funzionare, gli iracheni danno qualche segno di vita e gli iraniani preannunciano la possibilità di un intervento (ma non la Turchia, probabilmente per le ragioni specularmente inverse). Sono problemi che richiederanno tutta l’attenzione e tutta la capacità di Obama. Che abbia successo è interesse di tutto l’Occidente e dell’immagine che egli consegnerà di sé alla Storia.

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