Cronache dai Palazzi

La tregua natalizia rappresenta una pausa di riflessione sulle riforme da dare al Paese. In primo piano il Jobs Act del quale il governo ha approvato i primi due decreti attuativi, varati nel Cdm del 24 dicembre. In primo piano il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e l’estensione dell’Aspi a 24 mesi. In cantiere inoltre nuove regole per i licenziamenti, con l’indennizzo che per i nuovi contratti sostituirà nella gran parte dei casi il reintegro dell’articolo 18. Il reintegro resterà però a fronte di una ‘condanna’ per licenziamento ingiustificato e non potrà essere superato dal datore di lavoro con un super-indennizzo. Infine via libera al decreto per Taranto e l’Ilva, decreti attuativi sul fisco e il Milleproroghe.

“Una rivoluzione copernicana” ha commentato il premier Renzi, “l’Italia entra in una fase di straordinaria disponibilità all’apertura”. Il licenziamento illegittimo “varrà anche per partiti e sindacati” mentre “ai licenziamenti collettivi è esteso lo stesso regime di quelli individuali”, ha sottolineato il premier introducendo un globale automatismo nel calcolo degli indennizzi.

Gli indennizzi per i licenziamenti ingiustificati andranno da 4 fino a un massimo di 24 mensilità. L’aumento sarà di due mensilità per ogni anno di servizio. Il decreto attuativo non prevede inoltre l’opting out, ossia la possibilità per il datore di lavoro di ‘superare’ il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato versandogli un super-indennizzo. “Rispettiamo l’opting out, ma è più importante sottolineare la rivoluzione copernicana realizzata in 10 mesi, secondo la logica di dare più tutele a chi ne bisogno, più libertà a chi vuole investire”: è stata questa la giustificazione del premier a proposito di opting out, un’opzione sulla quale insisteva invece il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano che comunque non si ritiene sconfitto.

In questo contesto Fabrizio Cicchitto di Ncd ha sottolineato il “salto di qualità assoluto per ciò che riguarda i licenziamenti collettivi” ma, nel contempo, ha rimarcato il “compromesso per ciò che riguarda i licenziamenti individuali”. A proposito delle pressioni di Ncd sull’opting out il premier ha infine evidenziato un ostacolo oggettivo alla misura: “Con l’opting saremmo andati oltre la delega concessaci dal Parlamento”.

Assumendosi “la responsabilità delle scelte finali” Renzi ha ammonito: “A quelli di destra che volevano di più, chiedo: dove eravate in questi anni? A chi da sinistra voleva di più ricordo l’Aspi e le tutele crescenti. Si poteva fare di più? Può darsi, ma intanto abbiamo fatto dei passi in avanti” e in ogni modo il via libera è stato raggiunto “senza grandi polemiche in Cdm” nonostante il “gioco delle parti” che si sviluppa “fuori” dai palazzi. “Il testo è aperto alle commissioni parlamentari, siamo pronti a rivedere i nostri convincimenti”, ha chiosato Renzi rimarcando comunque “un passo in avanti strepitoso”. Non fa parte del pacchetto approvato dal governo nemmeno il licenziamento per scarso rendimento. “Mettiamoci in testa – ha affermato Renzi – che sarebbe stata una polemica solo di applicazione giurisprudenziale. Il datore di lavoro può comunque intervenire per licenziamento economico”. Il premier ha inoltre rimarcato “l’estensione a 24 mesi delle tutele per chi perde il lavoro. Non sei più un numero, ma una persona. Lo Stato non si dimentica di te e ti aiuta fornendoti nuovi strumenti con i corsi di formazione. È chiaro che chi non li fa esce fuori dal programma”.

Nonostante le incomprensioni all’interno della maggioranza, anche il presidente della commissione Lavoro del Senato, Maurizio Sacconi (Ncd), ha voluto rimarcare degli elementi positivi del Jobs Act che “rappresenta per ogni osservatore internazionale politico e finanziario la misura della nostra capacità di autoriforma, la verifica della presenza o meno di una autentica leadership, la possibilità di superare un fondamentale vincolo alla crescita e una certa cultura ostile all’impresa”. Sacconi ha avanzato comunque un ‘ma’: “la bozza di decreto delegato, pur contenendo passi avanti nella regolazione, non solo la limita alle nuove assunzioni ma soprattutto mantiene, come già la legge Fornero che almeno era per tutti i contratti, un’ampia area di valutazione discrezionale del magistrato e quindi di incertezza giurisprudenziale”. Gaetano Quagliariello assicura infine che Ncd continuerà a “tenere il punto”, con la convinzione che “attraverso il passaggio parlamentare il provvedimento possa essere ulteriormente migliorato”.

La minoranza dem ha a sua volta manifestato una certa soddisfazione nello scontro delle parti che sembra aver momentaneamente neutralizzato i diverbi all’interno del Pd: “Sconfitta la pretesa di Ncd di avere nel decreto sul Jobs Act il cosiddetto opting out e il licenziamento per scarso rendimento”, ha infatti sottolineato Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera. Damiano ha comunque rimarcato la volontà della minoranza dem di portare avanti le proprie battaglie: “Rimane il problema dei licenziamenti collettivi per motivo economico: una soluzione contro la quale continueremo la nostra battaglia con l’obiettivo del miglioramento dei Decreti”.

Le proteste non mancano nemmeno sul fronte sindacale. Per la leader della Cgil Susanna Camusso non si può di certo parlare di “una rivoluzione copernicana”, dato che i provvedimenti messi in campo dal governo hanno “cancellato il lavoro a tempo indeterminato, generalizzando la precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia”. Susanna Camusso ha assicurato che “la Cgil continuerà a opporsi in modo forte e deciso a queste norme ingiuste, sbagliate e punitive nei confronti dei lavoratori e userà tutti gli strumenti a sua disposizione per ripristinare i diritti dei lavoratori”.

“I lavoratori italiani non hanno da festeggiare se viene cancellato lo Statuto dei Lavoratori – ha aggiunto il leader della Fiom Maurizio Landini – e si rendono possibile i licenziamenti dando solo un po’ di soldi”. Per Brunetta di Forza Italia, in verità “Renzi si limita a sfidare solo a parole la sinistra del Pd e la Cgil”. Il “modesto” salto in avanti per Brunetta “riguarda soltanto il licenziamento economico”, mentre “il problema vero riguardava e continua a riguardare i licenziamenti disciplinari a fronte di una giurisprudenza esageratamente ‘buonista’” e con ambiti di discrezionalità “troppo ampi ai giudici”. “L’opting out sarebbe stata una soluzione equilibrata – ha aggiunto Brunetta – ma sarebbe stata necessaria una determinazione che il governo e la maggioranza hanno solo a parole”.

A proposito di legge di Stabilità Potito Salatto, Vicepresidente nazionale dei Popolari per l’Italia, ha dichiarato: “Fra le contraddizioni e l’indeterminazione della legge di Stabilità approvata con un voto notturno, una sola cosa emerge con chiarezza: Renzi ancora una volta ha appagato la sua ansia di rottamazione ignorando le più elementari regole procedurali previste per l’esame di un atto parlamentare tanto importante”. Per Salatto “non resta altro che mobilitarsi perché occorre riscoprire le regole democratiche di un Paese civile come il nostro togliendo ogni responsabilità di Governo a questo premier sempre più peronista”.

Sullo sfondo, infine, la partita per il Quirinale e il totonomi in arrivo con le dimissioni di fine anno di Giorgio Napolitano. “Non sono per niente preoccupato. Sono molto tranquillo che troveremo una buona soluzione”: è questa la prospettiva di Matteo Renzi sull’imminente successione a Giorgio Napolitano. In un’intervista radiofonica il premier ostenta sicurezza tenendosi ancora sulle linee generali, nonostante le manovre attorno al Quirinale siano già avviate. Una cosa è certa, occorrerà “deporre le armi del ‘voglio mettere lui’, capire cosa serve all’Italia nei prossimi sette anni ancor prima di ‘chi’ serve, e discutere insieme il profilo del prossimo presidente”. Il nuovo presidente della Repubblica, in quanto “garante delle istituzioni”, dovrà essere “il punto di riferimento di tutti, non solo di qualcuno”, ha ammonito Renzi.

Intanto, sulle ipotesi di nomi che cominciano a circolare per il Quirinale, interviene Mario Mauro, Presidente dei Popolari per l’Italia: “Tanto Bersani quanto Draghi hanno certamente i requisiti per andare a ricoprire la carica di Capo dello Stato. Il presidente della Bce ha un profilo internazionale di sicuro spessore e una visione dell’Ue caratterizzata da una più marcata cessione di sovranità, quasi da Europa federale. Nel contempo Bersani rappresenta quella tradizione del Pd che oggi è così fortemente messa in crisi dalla leadership di Renzi. Pd, Forza Italia e i partiti centristi potrebbero inoltre trovare l’intesa anche su una personalità come Giuliano Amato”. ‘I giochi di parte’ a proposito della partita del Colle sono però evidenti. “Se si tratta di votare un nome del Pd se lo votino Berlusconi e Renzi”, dichiara il leader del Carroccio, Matteo Salvini. Mentre Giorgia Meloni, presidente di FdI, tira al bersaglio puntando Pier Carlo Padoan: “Mai al Quirinale il padre di questa vergognosa legge di Stabilità, che massacra gli italiani con le tasse e dispensa marchette alle lobby”.

Diverso l’atteggiamento di Forza Italia e, in particolare, di Silvio Berlusconi convinto tra le tante cose che la scelta del nuovo capo dello Stato sia “il naturale prosieguo del patto del Nazareno”. Un principio riconosciuto anche dal Ncd di Angelino Alfano che chiede “un patto a tre” su un nome condiviso in primis all’interno della maggioranza di governo. Pd e FI avrebbero i numeri per il Quirinale ma all’orizzonte sarebbero in agguato circa 155 cecchini – tra minoranza Pd, dissidenti di Forza Italia guidati da Fitto, Carroccio e forze minori del centro (Udc, Scelta Civica, Per l’Italia-Centro democratico), più qualche Gal-Popolari per l’Italia, pronti a far saltare il piano degli alleati del Nazareno. Senza trascurare i pentastellati pronti a sostenere quella parte del Pd che intende far saltare in aria, o perlomeno ridimensionare, l’asse Renzi-Berlusconi.

Gennaio sarà il mese delle dimissioni di Giorgio Napolitano e ogni giorno si rivelerà prezioso in termini di decisioni. Renzi cercherà di guadagnare tempo sulla nomina del nuovo inquilino del Colle con l’incardinamento dell’Italicum a Palazzo Madama tra il 7 e l’8 gennaio, e della riforma costituzionale a Montecitorio pochi giorni dopo. Il via libera delle Aule parlamentari alle due riforme è per il premier il pre-obiettivo da conseguire destinato non solo a modificare l’ossatura istituzionale, bensì a coagulare le maggioranze per eleggere il nuovo presidente che dovrà essere una figura di riferimento non solo per la politica italiana ma anche in Europa, garantendo a Berlino, come a Bruxelles e a Francoforte, che il nostro Paese intende proseguire il percorso virtuoso avviato ma ancora non compiuto.

©Futuro Europa®

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