Cronache dai Palazzi
Tra incontri internazionali e affari nazionali il governo di Matteo Renzi è impegnato a fare i conti con vari contraccolpi elettorali. Il primo e il ddl sulla Buona scuola che non supera l’esame della Commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama. Tutto in regola per i dem seguaci di Renzi, tantoché il capogruppo pd al Senato, Luigi Zanda, lo definisce “un incidente tecnico che non cambia il percorso delle riforme”. Il pareggio 10 a 10 equivale comunque ad un nulla di fatto che suscita l’ilarità delle opposizioni. Renato Brunetta prefigura addirittura “l’inizio della fine” per il governo. I renziani, a loro volta, dimostrano la volontà di rivedere il testo a partire dai “superpoteri” dei presidi e la valutazione dei docenti ma non sono disposti a tollerare “nessun rallentamento”, convinti che la riforma verrà approvata in commissione Cultura la prossima settimana.
Mario Mauro, presidente dei Popolari per l’Italia, che la scorsa settimana ha dichiarato l’allontanamento dalla maggioranza, spiega che il ddl deve essere “scritto come si deve”. Mauro sottolinea che nel ddl si intravede “lo stravolgimento del corretto rapporto tra Stato e cittadini” in quanto “rinegozia a posteriori, e con effetto retroattivo, le condizioni alle quali molti aspiranti docenti diventino insegnanti”. Il governo Renzi, modificando le regole del gioco, violerebbe il “principio della libertà di insegnamento”. E non solo.
“Il governo non può dire: introduco la libertà di scelta perché do un rimborsino di 76 euro a chi iscrive i figli alle paritarie e poi contemporaneamente impedire che le paritarie possano reclutare gli insegnanti. Per questo ho votato no e per questo ho chiesto ai colleghi degli altri partiti di fare altrettanto”, ammonisce il presidente Mauro spiegando le ragioni del proprio dissenso sulla Buona scuola. La bocciatura della Buona scuola per una pregiudiziale di costituzionalità preoccupa infine l’associazione sindacale e professionale Anief (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) che “per evitare una beffa” chiede “con urgenza” un decreto legge per salvare l’assunzione dei precari.
Il partito di Renzi dopo la direzione di lunedì 8 giugno – in cui si è discusso anche di modifiche su scuola e Costituzione – ha votato compatto e i 10 sì sono stati infatti tutti del Pd, anche se, come ha dichiarato Guglielmo Epifani, “sulle modifiche c’è ancora incertezza”. In un clima alquanto burrascoso la minoranza della minoranza – come la definisce il premier-segretario – è quindi pronta ad un Vietnam e lancia la proposta di un referendum tra gli iscritti del Partito democratico “in modo che la base si pronunci sul ddl scuola, e siamo sicuri che la stragrande maggioranza degli iscritti si esprimerà contro”, chiosa Alfredo D’Attorre dall’alto delle barricate.
L’idea di Renzi sembra essere quella di blindare il provvedimento al Senato, non solo puntando sull’apporto “esterno” di senatori in uscita dai ranghi di Forza Italia – sarebbero dai 4 ai 10 i verdiniani “neoresponsabili” pronti a rompere l’asse con il Cavaliere assecondando il percorso delle riforme del governo – ma anche blindando la minoranza interna che assume palesemente i caratteri dell’opposizione. “Modificheremo lo statuto e le regole di convivenza interna”, sottolinea con determinazione il vice Lorenzo Guerini, che spiega: “Il tema non è scrivere ulteriori regole, né di applicarle in senso disciplinare. Il tema è come si sta in una comunità politica secondo i principi di lealtà. Nel partito di discute e si dibatte ma, una volta che si assumono le decisioni, queste sono vincolanti per tutti”.
In casa azzurra, invece, si sta consumando un distacco preannunciato che vede protagonisti i verdiniani “neoresponsabili”, pronti a lanciare un “appello pubblico” con il sostegno di alcuni intellettuali di destra. L’appello “inviterà i moderati a sostenere le riforme di Renzi”. In pratica Berlusconi è stretto tra due fuochi, tra la tentazione di sposare la linea dura del Carroccio, soprattutto a proposito di immigrazione, e il giudizio più razionale di Verdini che consiglierebbe all’ex Cavaliere di riavvicinarsi al Patto del Nazareno rientrando così in partita sulle riforme.
Palazzo Chigi a sua volta non molla: “Preparatevi perché sarà ancora molto lunga. Stanno cercando di colpirci con gli scandali e amplificando l’emergenza immigrati, ma noi resisteremo e andremo avanti con maggiore decisione di prima”, afferma il premier. Per il presidente del Consiglio l’unica strada “è andare avanti con maggiore determinazione di prima sulle riforme”. Anche l’alleato Alfano – nonostante il vulnus provocato dall’affaire Azzollini che ha in parte avvelenato i rapporti tra Pd e Ncd – ribadisce che il governo “arriverà al 2018”. Niente crisi quindi, al contrario “proprio questo stillicidio, paradossalmente, potrà produrre il risultato di serrare le fila della maggioranza”, dichiara il leader del Nuovo Centrodestra in un’intervista al Corriere della Sera. Alfano vincola comunque il patto con Matteo Renzi alle “riforme da varare, opportunità da cogliere e problemi da superare”, non celando inoltre eventuali punti di divergenza come sulle unioni civili. La Camera ha infatti approvato una mozione del Partito democratico che impegna il governo a intervenire “per favorire l’approvazione di una legge sulle unioni civili, con particolare riguardo alla condizione delle persone dello stesso sesso”. Legge della quale è già stato avviato l’iter in Senato. Il Nuovo centrodestra ovviamente ha votato contro ma Alfano non pensa alla spaccatura dell’esecutivo bensì sottolinea la necessità di andare avanti :“Abbiamo un lavoro da completare. Nessuno si illuda di poterlo interrompere senza aver dato prima il senso di una missione compiuta”. Al primo posto le “priorità sociali ed economiche: immigrazione e Sud devono diventare temi strategici nell’agenda di governo”, afferma Alfano. Sul caso Azzollini, il leader di Ncd taglia corto e invita il Senato “a leggere prima le carte”, mentre riguardo alle polemiche con il Pd – soprattutto a proposito dell’improvvida richiesta di arresto di Azzollini – l’auspicio è quello di non “strumentalizzare politicamente una questione che attiene alla libertà di una persona”. Governo e inchieste giudiziarie viaggerebbero su “piani distinti e separati”.
Nel frattempo il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva due decreti delegati relativi alla riforma del lavoro. Il Jobs Act completa così il suo percorso annullando i co.co.pro dal 2016 e stipulando una rinnovata conciliazione tra famiglia e lavoro, dato che i genitori potranno sfruttare il congedo facoltativo di 6 mesi non più fino agli 8 anni del bambino ma fino ai 12 anni. Il tutto con una retribuzione pari al 30% dello stipendio fino al sesto anno del figlio invece che fino al terzo anno. Il lavoratore o la lavoratrice potranno inoltre chiedere il part-time al posto del congedo parentale per un periodo corrispondente al congedo parentale stesso. I lavoratori autonomi potranno infine finalmente assaporare l’indennità di maternità anche in caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del committente.
“In un anno tutti i decreti delegati del Jobs Act sono stati realizzati, abbiamo esaurito il lavoro in modo efficace e rapido”, afferma il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi in conferenza stampa. “Il salario minimo è un tema che non abbiamo affrontato”, dice invece il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, assicurando comunque che il governo affronterà la questione attraverso un confronto “di sistema” con i sindacati e i rappresentanti delle imprese. La discussione interesserà anche altri temi come la rappresentanza, ossia le regole per decidere chi può sedere al tavolo della trattativa per discutere e firmare i contratti, e la contrattazione medesima, rispetto alla quale è previsto il potenziamento del cosiddetto secondo livello, cioè gli accordi aziendali rispetto a quelli nazionali.
Semplificare il fisco, velocizzare l’iter della giustizia nei tribunali e una completa riforma della Pubblica amministrazione sono infine gli altri obiettivi a medio termine che l’esecutivo di Renzi si prefigge, mentre la riforma della Costituzione, anche a causa della resistenza della minoranza dem, slitterà molto probabilmente dopo l’estate.