Turchia, cosa può cambiare ora con i Curdi in Parlamento

Domenica 7 Giugno, Diyarbakir, principale città delle regioni curde della Turchia, era al settimo cielo. L’HDP, formazione pro-curda che milita per i diritti delle minoranze, nonostante il suo quarto posto, festeggia come se avesse raggiunto il podio più alto. E con ragione.

Con il 13% delle preferenze, il Partito di Selahattin Demirtas supera l’alto sbarramento del 10% imposto dalla Costituzione turca ad ogni formazione politica affinché possa sedere in Parlamento. Un emiciclo che dovrà ora fare i conti con 79 deputati HDP, 30 dei quali sono donne. I claxon, i fuochi d’artificio, le urla di gioia riempiono la fine di una giornata al cardiopalma per la città di Diyarbakir. Dalle otto del mattino le famiglie si sono recate numerosissime ai seggi (87% di partecipazione su scala nazionale). La paura di brogli è nella testa di tutti. Molti simpatizzanti dell’HDP temono di farsi scippare la vittoria prevista dai sondaggi. La Turchia è abituata a questo. Tutti ricordano le elezioni amministrative del 2014 quando una panne di elettricità aveva gettato nel buio completo molte seggi ad Ankara proprio nella fase finale di spoglio. “Un gatto è entrato nel trasformatore”, aveva allora goffamente risposto il Ministro dell’Energia per giustificare il guasto.  Nel corso della giornata, la vittoria del partito pro-curdo diventa sempre più chiara. Nella regione, l’HDP ottiene il 78% delle preferenze, moltissime in più rispetto a quelle ottenute dal Partito di Erdogan, l’AKP (14,7%). “E’ la risposta che ci aspettavamo dopo gli attentati: protestare attraverso il voto, la solidarietà, e non attraverso la violenza”, dichiarano soddisfatti a Diyarbakir. In effetti la città ha pagato a caro prezzo questa vittoria, due giorni prima delle elezioni, durante un ultimo comizio dell’HDP, due bombe sono esplose in mezzo alla folla causando la morte di quattro persone, ferendone e mutilandone centinaia. E’ stato l’azimut di una campagne elettorale tesa per i membri del Partito, vittima di regolari attacchi e violenze. Domenica scorsa, la pazienza dei sostenitori dell’HDP sembra essere stata ricompensata. Ma i Curdi dovranno ora far prova di vera, grande tolleranza.

“La nostra è una grande vittoria”, ha detto raggiante Salahattin Demirtas durante una conferenza stampa improvvisata in un ristorante di Istanbul, “i sostenitori della democrazia e della Pace hanno vinto, coloro che vogliono l’autocrazia, sono arroganti e si considerano unici proprietari della Turchia, hanno invece perso”, ha dichiarato ringraziando quelli che avevano “dato voce” all’HDP. “Non vi deluderò”. E’ sotto la direzione di questo giovane avvocato che il Partito pro-curdo ha raccolto tante preferenze per diventare un vero Partito in Parlamento, con 79 Deputati contro i 29 eletti sotto l’etichetta di “indipendenti” nel 2011. Sconosciuto due anni fa, è riuscito a vincere con pochissimi mezzi, tre ore di presenza alla televisione pubblica tra il 3 Maggio e il 3 Giugno, contro le 45 riservate al Presidente Erdogan e le 54 per il Primo Ministro Davutoglu. Con il dono della sintesi e forte di grande sensibilità politica, Demirtas ha saputo prendere le distanze con il Partito del Lavoratori del Kurdistan (PKK, interdetto in Turchia) per allargare le basi dell’HPD alle minoranze, alle donne, agli omosessuali, agli ecologisti. Ha riconosciuto il genocidio del 1915 degli Armeni di Anatolia. Grazie a lui, il partito pro-curdo ha perso l’etichetta “etnica” per diventare un Partito turco, l’unica formazione dal volto europeo sulla scena politica del Paese, un Partito moderno.

Dotato di grande lungimiranza e senso pratico, Demirtas non ha mai cessato, durante la sua campagna elettorale, di evocare il proseguimento del  processo di pace tra Curdi e Turchi in nome di un futuro comune. Bandiere turche, per la prima volta, hanno fatto la loro apparizione nei grandi comizi del’HDP, mentre il ritratto di Mustafa Kemal Ataturk, il cui operato viene solitamente denunciato dai Curdi, oggi trova spazio accanto a quello del loro leader agli arresti Abdullah Ocalan. Le violenze subite non hanno infiammato i Curdi del Sud-Est e le “provocazioni” della stampa governativa contro Demirtas, accusato di aver mangiato “carne di maiale” durante un recente viaggio in Germania, sono scivolate addosso al giovane leader che però ora dovrà lavorare sodo per mantenere la parte di voti arrivati dai non-Curdi. Ma il clima sta cambiando. Importantissimo è stato ottenere quel 13% ed entrare in Parlamento. Se ciò non fosse avvenuto i suoi delusi deputati avrebbero potuto tornare a Diyarbakir e dichiarare un Parlamento autonomo, alimentando la polarizzazione tra Turchi e Curdi e fomentando i sostenitori della linea dura del PKK. Avendo ottenuto un posto di tutto rispetto nel Parlamento di Ankara come Partito politico e non come gruppo indipendente,  c’è una legittima controparte curda per risolvere il problema curdo in Turchia. La strada è in salita, visto che se ottenuto il titolo di “interlocutore”, l’HDP ha perso il partner più potente: Erdogan. Le bombe e gli attacchi della campagna ricordano che la violenza è sempre pronta a riaffiorare. Questo conflitto ha ucciso più di 30mila persone dal 1984 ad oggi.

Se le elezioni dell’altra Domenica hanno mostrato la saggezza dell’elettorato turco che ha saputo dare una battuta d’arresto alla deriva autocratica di Recep Tayyip Erdogan, sono anche una buona notizia per l’Europa perché riapre la possibilità di vedere un futuro di collaborazione con una Nazione di gran peso  per gli equilibri tra il Vecchio Continente e un Medio Oriente in continua evoluzione, innegabilmente legata a Unione Europea e Nato.  Ma la lezione storica da ritenere da queste elezioni politiche è sicuramente la maturazione politica dei Curdi. Totalmente sottomesso a Erdogan, il Primo  Ministro, Ahmet Davutoglu, può tentare di formare una maggioranza di coalizione con uno dei partiti di opposizione. Può anche scegliere di formare un Governo di minoranza. Quello che però non potrà fare è ignorare il segnale, anzi, l’avvertimento arrivato dal risultato del voto. Una parte sempre più decisa dell’elettorato denuncia uno “Stato AKP” minato dai troppi anni al potere, dalla corruzione e, sotto la spinta propulsiva di Erdogan, dalla volontà di sottomettere tutti i poteri, istituzionali e non: giustizia, polizia, stampa. Dietro ad ogni scoglio il Presidente ha visto un “complotto” ordito dagli ex alleati del movimento islamo-conservatore, degli ebrei, delle banche, degli Stati esteri…. Ma i dati parlano chiaro, la fame di potere, la megalomania, le guerre in Medio Oriente, la disoccupazione, il deficit negli scambi hanno danneggiato pesantemente l’economia turca, creando grandi disparità nella distribuzione delle ricchezze. Inoltre, i discorsi sempre più carichi di intolleranza e religione hanno avuto un effetto boomerang, preoccupando la parte di società più aperta e tollerante.

Ci vorrà tempo e pazienza perché quello che è in corso è un lavoro di creazione di nuovi equilibri contro una forma di islamizzazione aggressiva, portata avanti sotto copertura di ambizioni neo ottomane, in una Turchia troppo complessa per non reagire. “L’inizio della fine”, come molti hanno scritto, è cominciato Domenica 7 Giugno dove ha vinto il buon senso, nonostante i grandi rischi di instabilità governativa ed economica (e sono già arrivati i primi segnali dai mercati), ed ha prevalso una grande maturità nella pace delle urne, anche se la “pace” vera non arriverà né presto, né con semplicità.

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