L’accordo con l’Iran
L’accordo firmato a Vienna con l’Iran è una vittoria per la diplomazia occidentale, che ha lavorato con pazienza e perseveranza per lunghi e difficili mesi. Lo è per Obama, che ha confermato la sue doti di lungimiranza e moderazione in politica internazionali, che a suo tempo gli valsero un Premio Nobel per la Pace che parve prematuro ma oggi (pensando anche alla ripresa dei rapporti con Cuba) appare del tutto giustificato. Lo è per l’Europa, protagonista della trattativa, non solo attraverso le sue maggiori potenze militari ma direttamente, attraverso Federica Mogherini, che è stata parte attiva nelle fasi più dure e non si è certo limitata solo a figurare a fianco degli altri Ministri degli Esteri nella storica foto finale. Ma un ruolo positivo – come ha riconosciuto lo stesso Presidente degli Stati Uniti – l’ha svolto la Russia di Putin.
L’accordo rende – come ha detto Obama – il mondo più sicuro? Si, se sarà applicato scrupolosamente e in tutte le sue parti, cioè se l’Iran rispetterà alla lettera gli impegni presi (le dichiarazioni del Presidente Rohani e l’esultanza del popolo iraniano farebbero sperare di sì). Si è evitato o almeno allontanato di molto nel tempo il pericolo che l’Iran si dotasse di armi nucleari – con impegni e forme di controlli e verifiche molto precisi e cogenti – e si è scongiurato quello, non molto remoto, di un intervento militare israeliano od occidentale che avrebbe messo a ferro e a fuoco l’intero Medio Oriente. Con la eliminazione delle sanzioni, l’Iran recupererà immense risorse finanziarie per ora bloccate e potrà tornare a vendere liberamente il suo petrolio, riprendendo la via della crescita economica che beneficerà il suo popolo, ma anche quei Paesi che, come l’Italia, hanno con l’Iran rapporti commerciali di grande importanza, mai sostanzialmente interrotti, ma certo ridotti in epoca di sanzioni. Più in generale, è possibile prevedere un’ulteriore discesa del prezzo del petrolio, che beneficerà le grandi economie produttive ed esportatrici, come la nostra.
L’accordo di Vienna può però avere una portata strategica che va al di là della proliferazione nucleare e dell’economia. Nel Medio Oriente è in atto una partita assai aspra, in cui il fondamentalismo islamico cerca di imporsi come potenza politica, economica e militare con una ampia base territoriale e statuale. È un tentativo che sin qui ha avuto successi e rovesci, ma continua e resta minaccioso. Il suo nemico non è tanto Israele, ma la civiltà occidentale e tutti quei regimi di Paesi islamici che conservano una veste laica e si rifiutano di applicare le oscure norme dell’integralismo religioso. Con buona pace per il “dialoghismo” pacifista di vario colore, la risposta a questo pericolo non può essere, alla fine, che militare. Ma sarebbe un’illusione pensare che si possa vincere il conflitto solo con i bombardamenti aerei, che sono certo utili, ma come appoggio alle forze di terra, a cui spetta il compito principale. Chi può fornirle? Gli Occidentali non vogliono o non possono farlo. La Turchia, che ne avrebbe i mezzi, è stata fin qui colpevolmente neutra. L’Egitto, quando ha accennato a una reazione in Libia, è stato messo a tacere (vedremo cosa farà dopo i missili tirati dall’IS contro le sue navi). L’esercito iracheno non ha fornito prove troppo brillanti e quello siriano ha subito vari rovesci. Solo i curdi continuano a portare avanti la loro guerra, con valore ma anche con grandi difficoltà. Da soli è difficile che possano farcela.
Ma un aspetto chiave della vicenda è che il fanatismo dell’IS è di marca sunnita: mira a imporre il “suo” tipo di religione su quello sciita e se possibile eliminarlo o rinchiuderlo dentro i confini dell’Iran. Ciò spiega, tra l’altro, il perché sia stato finanziato e appoggiato sottobanco dall’Arabia Saudita e da altri Paesi sunniti del Golfo: non solo per ragioni, diciamo così, ideologico-religiose, ma perché l’espansione della potenza iraniana resta il loro spettro. E ciò a sua volta contribuisce a spiegare perché l’Arabia Saudita abbia accolto così freddamente l’accordo di Vienna. In questo quadro, l’Iran, in grado di opporsi militarmente sul terreno all’IS (come sta facendo) diventa un alleato obiettivo degli interessi occidentali. È presto per dire se questo tipo di convergenza di interessi possa estendersi anche alla situazione del Medio Oriente in generale. Dubito che sia agevole, perché implicherebbe una svolta a 180 gradi del regime iraniano, che dovrebbe rinunciare, almeno nella sostanza, se non nelle forme a voler distruggere Israele e ad alimentare il terrorismo anti-isrealiano in Libano e in Palestina. E infine, come stingerà una collaborazione tra Statu Uniti, Europa e Iran sui rapporti con l’Arabia Saudita? Tutte questioni da vedere. Ma l’accordo appena raggiunto apre possibilità interessanti.
Altro aspetto importante dell’accordo sta nella collaborazione che si è verificata tra Occidentali e Russi, passando sopra alle divergenze che li oppongono in materia di Ucraina. Quest’ultimo tema è per il momento un po’ fuori dell’attenzione, ma resta latente e serio. È senza soluzione? No, se da parte occidentale si comprende che l’assorbimento della Crimea per parte della Russia è irreversibile; se da parte ucraina si accetta in buona fede di dar corso agli impegni presi in materia di autonomia delle ragioni russofone; e se Putin fa prevalere le ragioni che impongono di mantenere il filo della collaborazione con Stati Uniti ed Europa, necessaria di fronte ai pericoli che minacciano tutto il mondo laico.
Resterebbe da parlare della reazione del Primo Ministro israeliano, che peraltro non deve stupire. Netanyahu aveva fatto dell’opposizione all’accordo con l’Iran una cavallo di battaglia che lo aveva portato a scontrarsi direttamente con il Presidente degli Stati Uniti. È ovvio che oggi reagisca con rabbia a quello che non è riuscito a evitare. Certo, questo alimenta la resistenza di una parte (forse la maggioranza) del Congresso degli Stati Uniti ad approvare l’accordo. Ma Obama ha già anticipato il suo veto a un eventuale rigetto. In questo caso, l’accordo tornerebbe al Congresso dove, per superare il veto presidenziale, occorrerebbe una maggioranza di due terzi. Ci saranno conseguenze di lungo termine nei rapporti USA-Israele? Non credo. Tra i due Paesi esistono relazioni di mutua dipendenza politica e militare troppo strette per essere veramente messe in discussione. Ed è giusto che così sia, perché la sopravvivenza e la sicurezza di Israele, al di là delle posizioni più o meno estremiste di alcuni suoi governanti, sono parte di un dovere e interesse elementari del mondo civile.