L’inerzia di Obama in Siria
La sentenza sul comportamento di Obama nel “caso Siria” sembra indiscutibile: il Presidente degli Stati Uniti è un incapace. Ma l’inerzia degli Stati Uniti ha una possibile spiegazione: il Medio Oriente non è più una priorità strategica per Washington.
Barack Obama pare non essere una Capo delle Forze Armate inflessibile, ma un politico con poco polso, proclamano i suoi detrattori perché non ha saputo prendere, quando se ne è presentata l’occasione, la determinante decisione di colpire Assad. L’occasione alla quale si riferiscono è quella dell’Agosto 2013, quando è stato dimostrato l’uso delle armi chimiche da parte del regime di Bachar al-Assad. All’ultimo momento, Obama si è rifiutato di scatenare una tempesta di fuoco sul cielo di Damasco, con il grande “dispiacere” di François Hollande che ha dovuto riporre i suoi Rafale negli hangar. Nei confronti dei russi che si sono impunemente invitati nella polveriera siriana, gli Stati Uniti sembrano paralizzati, avendo lasciato a Vladimir Putin una grande capacità di manovra nel tentativo di santificare il fu regno alawita, salvare Assad e preservare l’unica base politica e militare di cui Mosca dispone nel Mediterraneo. I bellicisti si lamentano del fatto che invece di alzare la voce, il Segretario di Stato John Kerry continui ad avere infinite discussioni telefoniche con il suo omologo russo Serghei Lavrov. Negli Stati Uniti, l’opposizione Repubblicana, in piena campagna elettorale, ha la spada in resta e anche nei ranghi dei Democratici l’aria che tira non è delle più serene.
La spiegazione psicologica sulla supposta mancanza di carattere di Barack Obama manca di spessore. A guardare le cose da più vicino, il Presidente americano dimostra una certa coerenza e la sua prudenza nasce da serie motivazioni. Traumatizzato dai fallimenti Irak e Afghanistan, vuole per prima cosa evitare a qualsiasi prezzo di mettere le mani in un meccanismo incontrollabile. Pensa anche che i russi hanno mezzi limitati e che finiranno per invischiarsi nelle sabbie mobili siriane. Soprattutto, questa regione del mondo ha perso importanza strategica agli occhi dell’America. Per moltissimi anni la politica mediorientale degli Stati Uniti si è basata su due preoccupazioni: Israele e il petrolio. Anche se la lancinante questione palestinese rimane un problema ricorrente, come lo mostrano le gravissime tensioni degli ultimi giorni a Gerusalemme, nei Territori o a Gaza, Israele non è più in pericolo di vita. Il mondo arabo è in mille pezzi. La Siria e l’Irak sono destabilizzati. Hezbollah è troppo occupato a combattere in Siria accanto agli alawiti di Assad per pensare di mettere benzina sul fuoco Israele. Hamas, soffocato dall’esercito egiziano, è mantenuto sotto controllo nella striscia di Gaza. Anche se è sempre in agguato una possibile escalation, non costituisce un pericolo esistenziale per Israele. L’Egitto, mantenuto sotto il pugno di ferro di Abdel Fatah al-Sissi, non pensa minimamente di rimettere in causa la pace con lo Stato ebraico, così come non lo pensa il re Abdallah di Giordania. I paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, sono forse dei giganti finanziari, ma sono sicuramente dei nani militari e hanno molto più paura dell’Iran che di Israele.
Per quanto riguarda il petrolio, il pianeta ne è pieno. Gli Stati Uniti sono diventati nel 2014 il primo produttore planetario di greggio grazie al petrolio di scisto. L’offerta mondiale è, da molti mesi, eccedentaria. Il fenomeno andrà ad accentuarsi: la caduta dei prezzi incita i paesi produttori ad estrarre maggiori quantità per evitare perdite di valuta troppo importanti. Senza contare il ritorno dell’Iran sui mercati. In questo contesto, il greggio mediorientale ha, in parte, perso importanza strategica. A torto o a ragione, Barack Obama ha fatto una scommessa con l’Iran, il gigante della regione, con un accordo sul nucleare che Washington voleva a qualsiasi prezzo. Scelta azzardata, ma che un domani può rivelarsi di grandissimo profitto. Infine, il Presidente americano è assolutamente convinto che il futuro del mondo e soprattutto degli Stati Uniti si giochi più verso l’Asia che tra il Nilo e l’Eufrate. Obama un incapace? Forse non del tutto.