Potito Salatto (PpI): verso la costruzione del nuovo gruppo Popolare Italiano
Il convegno “Uniti Si Vince” del 28 e 29 novembre ha riunito a Orvieto gli esponenti politici di area popolare, distinta dalla sinistra e distante dal populismo, che si basi su principi ispiratori condivisi e un programma d’azione comune. Abbiamo intervistato l’On. Potito Salatto, Vicepresidente dei Popolari per l’Italia, per un’analisi dell’incontro e dei principali temi di attualità italiana ed europea.
A conclusione del convegno è stato siglato un documento programmatico denominato “Patto di Orvieto”: qual è il significato e quali gli obiettivi di questo incontro?
Il Patto di Orvieto è stato un significativo passo in avanti verso l’obiettivo finale, da noi perseguito da tempo, di ricostruire un’area moderata e popolare che si riconosce nel Partito Popolare Europeo, alternativa al PD di Renzi e al Movimento 5 Stelle. Si prevede anche la necessità, successivamente, di ricollegare insieme tutte le innovazioni politiche interne al centro destra, in forma assolutamente diversa dal passato.
Tale progetto ha preso forma nel meeting di Orvieto, che ha raccolto in un’evidente sintonia coloro i quali hanno rotto con l’NCD passando all’opposizione, noi Popolari per l’Italia e tutta una serie di espressioni della società civile, in primis l’Associazione “Liberi e Forti” presieduta da Ettore Bonalberti. Il titolo “Uniti Si Vince” del convegno ha rappresentato egregiamente la volontà collettiva verso una nuova cooperazione di tutti gli aderenti al Patto di Orvieto. Nei prossimi giorni sarà varato il coordinamento rappresentativo di quanti hanno sottoscritto il documento, per porre in essere una serie di iniziative soprattutto in tutte le città in cui si vota: in particolare, le liste comuni a sostegno della candidatura di sindaci ritenuti validi serviranno da test sul territorio per l’avvio di questa nuova “unità centrale”. Le amministrative saranno dunque il primo battesimo di fuoco per il nuovo gruppo.
Entro la primavera del 2016 si renderà ufficiale il nuovo contenitore politico unitario, che possiamo definire come la “quarta gamba” del tavolo politico italiano, formato da Renzi, i grillini e l’area Berlusconi-Salvini; essa avrà naturalmente più affinità con il gruppo di centro-destra, godendo del fatto che Berlusconi è la parte moderata del leghismo e perché fa parte del PPE, quindi consona alla nostra posizione di Popolari per l’Italia.
Che posizione assumono i Popolari per l’Italia sul fenomeno dell’immigrazione, in questo frangente storico di insicurezza a livello europeo e internazionale?
A mio avviso, la vicenda dell’immigrazione va risolta applicando le leggi in vigore: l’accoglienza per i soggetti verificati come richiedenti asilo politico, e il rimpatrio di chi è senza giustificazioni di lavoro sul territorio, o addirittura clandestino. Non c’è dubbio che, per la parte che non è richiedente asilo politico, vanno verificati e definiti flussi di immigrazione utili all’economia del Paese di accoglienza.
Il tema dell’accoglienza dei rifugiati politici rientra negli ideali e nei valori dell’Unione europea. Tuttavia gli episodi recenti la dicono lunga sulla necessità di una strategia diversa: fin quando non sono arrivati nell’Est europeo i rifugiati siriani, l’Europa sottovalutava il problema, o comunque affidava la gestione dell’immigrazione solo ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Italia, Spagna e Grecia). Oggi invece ci si rende conto che tutto il vecchio continente non può che adottare politiche adeguate di integrazione e di ingresso, a causa di un flusso in aumento nei prossimi anni che va impostato in maniera più efficiente.
A suo parere, quale manovra di riforma risulterebbe più efficace nella lotta all’evasione fiscale?
Secondo me l’unica opportunità seria sta nell’introdurre in Italia il sistema in vigore negli Stati Uniti, che prevede la detrazione fiscale di tutte le spese compiute dai cittadini: ciò comporterebbe, per i primi anni, un introito certamente inferiore per lo Stato, ma guardando a grande distanza si creerà un avanzo di gran lunga superiore che porrà termine, in gran parte, all’evasione fiscale, con un conseguente abbassamento delle tasse.
Purtroppo, come vede, le cose ovvie del nostro paese non hanno cittadinanza. L’invenzione, in questi giorni, di pagare anche il caffè con il Pos è solo una boutade mediatica che corre il rischio di aggravare i costi per i cittadini, perché gli esercenti caricheranno i costi di commissione sul cittadino stesso.
In che modo si può immaginare una reale ripresa economica dell’Italia, che attualmente cala vertiginosamente nella sfida europea, con una crescita inferiore all’1 per cento?
Un paese, per crescere, non può soltanto attenersi ai protocolli di Maastricht e al rigore dei conti pubblici, ma deve porre in essere una politica di investimenti che assicurino lavoro e crescita; inoltre è necessario attuare una razionalizzazione, con conseguente riduzione della spesa pubblica. Cos’altro serve? Un intervento incisivo sulle banche per la riapertura del credito, alle imprese e alle famiglie, e una riduzione delle tasse in termini reali, non fittizi come oggi. Se da una parte ai cittadini si danno gli ottanta euro, dall’altra gli arrivano ogni giorno cartelle pazze della sanità o dei vigili urbani, moduli da pagare di tutti i tipi, aumenti di balzelli locali per servizi inefficienti. Di questi argomenti si parla spesso, ma a livello di governo non si conclude mai nulla, se non con bonus improduttivi di stampo elettoralistico.
Sul tema delle elezioni amministrative, lei promuove la candidatura di soggetti con una vera esperienza politica, mentre è contrario alla scelta di esponenti della classe dirigente provenienti da ambiti lontani dei partiti. Che visione ha in merito?
Ritengo che i partiti debbano avere la massima attenzione nei riguardi della società civile, e di tutti quei movimenti e associazioni che in essa si muovono. Il partito politico non può pero delegare ad altri la rappresentanza, sfuggendo alle proprie responsabilità. Fino ad oggi, il leaderismo non ha consentito la crescita di un’adeguata classe dirigente, e per questa ragione ci si rivolge a soggetti esterni, credendo di poter dare un’immagine migliore della politica. Per citare un esempio, ricordo che la segreteria De Mita fu quella che diede il via alla crisi finale della Democrazia Cristiana, aprendo ai cosiddetti esterni, che sostituirono la classe dirigente del partito.
Ormai nel nostro Paese tutti pensano di poter far tutto, ma non è così: imprenditori, medici, magistrati, ognuno deve svolgere al meglio il mestiere che ha scelto. Quando invece tali professionisti si pongono al vertice di amministrazioni locali o alla guida di un movimento, la loro inesperienza politica li porta al disastro. In città come Roma, Milano, Napoli e Bologna, la figura del sindaco deve avere dietro di sé un curriculum di professionalità politica adeguata. I problemi di queste realtà complesse non si risolvono con un presunto tecnicismo, ma con la mediazione, la sensibilità e la fantasia amministrativa – viste le difficoltà di cassa che ci sono in tutti quanti i comuni – e questo richiede un excursus politico notevole sul quale poter basare la propria capacità di incidenza sul territorio.