Libia, il Paese che non c’è

Migranti, pericolo Isis, connazionali in ostaggio, rapporti economici: sono parecchie le recenti vicende d’interesse per l’Italia che convergono verso la “questione libica”. Sarebbe irresponsabile non indirizzare gli sforzi politici, diplomatici e – in extrema ratio – anche militari alla risoluzione del vespaio che scuote, da oltre cinque anni, il lembo di Nord-Africa più vicino alle nostre coste.

Caos e frammentazione fanno della Libia il Paese che non c’è. A contendersi il controllo del territorio, dopo la caduta di Gheddafi, vi sono ben due Parlamenti: la Camera dei rappresentanti di Tobruk, in Cirenaica, riconosciuta sul piano internazionale e sostenuta da Egitto ed Emirati Arabi Uniti, e il suo contraltare, un governo antagonista con sede a Tripoli, appoggiato da Fratelli Musulmani, Sudan, Qatar e Turchia. Ad aggravare l’instabilità della situazione, contribuisce la presenza attiva e conflittuale di tribù e gruppi jihadisti sparsi, fra cui le milizie dell’Isis, saldamente attestate a Sirte e Derna e particolarmente attratte dalla vicinanza di importanti terminal petroliferi sulla fascia costiera. Specifica apprensione suscita, nel governo italiano, la difesa degli interessi legati a gas naturali e oro nero, rappresentati dalla piattaforma off-shore dell’Eni al largo delle acque di Sabratha e dagli impianti di lavorazione sulla terra ferma, nel raggio d’azione del Califfato.

E proprio da questa località della Tripolitania, patrimonio universale dell’Unesco, fondata dai Fenici e conquistata – dopo un breve interregno numida – dai Romani, sono giunte nei giorni scorsi notizie sull’esito del rapimento di quattro tecnici italiani, tenuti in ostaggio da circa otto mesi. Inviati a Mellitah, dalla società di costruzioni Bonatti per fornire assistenza e manutenzione presso la stazione di compressione Greenstream, compound gestito dall’Eni che manda gas in Italia, Filippo Calcagno, Gino Pollicardo, Fausto Piano e Salvatore Failla erano stati sequestrati il 19 luglio 2015, al ritorno da un periodo di ferie in Italia, lungo il tragitto tra il confine libico-tunisino e la loro sede lavorativa. Il sequestro, avvenuto – pare – in assenza delle più ordinarie procedure di sicurezza da parte dell’azienda di Parma, si è avvitato nel vorticoso carosello delle lotte incrociate fra fazioni, bande di predoni e gruppi tribali locali, tanto da creare grande confusione sull’identità dei rapitori. Si è parlato di appartenenti all’Isis, voce rivelatasi poi infondata. La tesi più accreditata sembra molto più semplice: i quattro italiani sono stati prelevati e tenuti sotto chiave – a suon di percosse e sevizie – da uno o più gruppi criminali che operano a fini estorsivi. Calcagno e Pollicandro sono tornati a casa, in Italia. Nonostante Algrabli, capo del Consiglio militare di Sabratha, ne attribuisca la liberazione a un blitz, i due connazionali affermano di essere riusciti a liberarsi da soli, evadendo dalla cella lasciata incustodita dagli aguzzini. Diversa e drammatica, invece, la sorte di Failla e Piano, che anticipa di ventiquattro ore – in una strana successione temporale – la presunta fuga dei loro colleghi: caricati a bordo di un convoglio diretto al luogo d’incontro con agenti dei servizi segreti italiani, pronti a pagare il riscatto negoziato nei giorni precedenti, i due sarebbero stati colpiti a morte dal fuoco “amico” esploso, senza preavviso, dai miliziani di un check-point, che scambiano i pick up per automezzi di jihadisti.

La versione libica ricorda, in un certo senso, quella sull’uccisione per errore del funzionario del Sismi Nicola Calipari, durante l’operazione di liberazione in Iraq di Giuliana Sgrena, giornalista de Il Manifesto. Tuttavia, le dichiarazioni del ministro degli Esteri Gentiloni escludono categoricamente il pagamento di riscatti. Il ventaglio delle ipotesi è ampio: i quattro potevano essere stati sequestrati da bande diverse, o passati di mano ad altri gruppi, o, ancora, divisi in coppie su due differenti convogli, al momento dello scontro a fuoco. S’ignora, tuttora, come siano veramente andate le cose: resta, invece, stridente, il fastidio per il mancato immediato rientro in patria delle salme, bloccate in Libia dalla volontà di Tripoli di eseguire gli esami autoptici. Dopo la presa in giro da parte delle autorità egiziane sul caso Regeni, si temono altre forme di “inquinamento” delle prove, per depistare ancora una volta gli inquirenti italiani dalla verità.

Nel frattempo, mentre i Paesi lungo la direttrice terrestre balcanica chiudono le frontiere ai migranti, costringendo i flussi a ripiegare massicciamente, da qui ai prossimi mesi, verso la rotta marittima libico-italiana, l’ambasciatore americano a Roma, John Phillips, pressa l’Italia sull’invio di 5.000 soldati in Tripolitania per contrastare il radicamento dell’Isis. Gli Usa prevedono, nella regione, la presenza di un contingente totale di circa 7.000 uomini, incluse le forze britanniche e francesi. Il nostro governo ha già dato la disponibilità al trasferimento nella base di Sigonella, in Sicilia, di droni armati americani da impiegare in “missioni difensive”, possibile preludio a un coinvolgimento militare italiano in Libia. La Farnesina e il Presidente del Consiglio Renzi, in ogni caso, smentiscono apertamente un ingresso in guerra. Nel recente vertice bilaterale Italia-Francia, tenutosi al Palazzo Ducale di Venezia e dedicato alla memoria di Valeria Solesin, la ricercatrice veneta vittima dell’attentato al Bataclan, Renzi ha ribadito l’importanza di ripristinare in Libia lo stato di diritto attraverso la sollecita formazione d’un esecutivo d’unità nazionale, rinviando alla sua espressa richiesta, e sotto mandato Onu, eventuali nostri interventi militari.

Secondo gli economisti internazionali, la spartizione del paese nordafricano, ricco di greggio di alta qualità, vale oggi 130 miliardi di dollari, stima quadruplicabile in caso di definitiva stabilizzazione della regione. Assai sostanziosa è, dunque, la posta in gioco e altrettanto prevedibile il furioso scontro asimmetrico per aggiudicarsela; si era capito subito, dopo l’eliminazione di Gheddafi. Infatti, da quel giorno, molti, troppi avvoltoi hanno cominciato a volteggiare minacciosamente nell’aria.

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