Brexit o non Brexit, questo il dilemma
Mossa da dentro o fuori. Non solo per il Regno Unito, chiamato il prossimo 23 giugno a pronunciarsi sulla permanenza o meno nell’Unione Europea, ma anche per il premier conservatore Cameron, il quale – con la convocazione del referendum – ha prodotto una spaccatura in seno alla sua compagine di Governo e messo sul ceppo il suo futuro alla guida del Paese. Sarebbero cinque o sei, fra ministri e sottosegretari Tories, a divergere dall’attuale linea del loro leader, che invece tira dritto.
Questione di coerenza, sostiene l’inquilino di Downing Street: aveva promesso di rinegoziare accordi più vantaggiosi con Bruxelles e, una volta ottenuti, rimettere la decisione nelle mani dei cittadini. Così è stato, ma una posizione netta pro-UE Cameron l’ha espressa con grande determinazione solo di recente e, ad ogni modo, dopo aver incassato il trattamento di favore concesso dall’Unione per fronteggiare il pericolo di Brexit.
Il Consiglio dei Ministri sponsorizza dunque l’adesione – a condizioni di privilegio – a un’Europa riformata, Cameron lancia sinistri moniti e oscure previsioni nell’ipotesi di esito opposto. Ha senz’altro sorpreso l’eccessivo allarmismo di un premier che evoca lo spettro di nuove guerre nel Vecchio Continente, in caso di out britannico. Sicuramente più fondati, invece, i timori sulle conseguenze economiche negative che affliggerebbero ambedue le parti, isolando, in particolare, Londra dalle principali rotte di scambio commerciale. Non a caso, tutto l’establishment economico e finanziario della City tifa contro la separazione, arrivando a prospettare – nell’eventualità – la perdita immediata del 20% del valore della sterlina e delocalizzazioni all’estero di numerose attività con annesso calo occupazionale. Sempre non a caso, la capitale britannica inaugura l’era post Boris Johnson, conservatore e contrario alla permanenza, eleggendo alla carica di sindaco un laburista filoeuropeista, espressione delle diversità etniche e religiose (o, se si preferisce, della multiculturalità) che fanno di Londra il centro più cosmopolita al mondo, musulmano e di origini pachistane: parliamo dell’avvocato Sadiq Khan, paladino dei diritti umani e difensore delle classi sociali più deboli. La sconfitta dell’altro candidato, l’euroscettico Zac Goldsmith, discendente della nota famiglia ebraico-tedesca, sposato con un’erede dei Rothschild, membro dell’élite aristocratico-conservatrice del Regno, esponente di un mondo agli antipodi di quello di Khan, ha tuttavia paradossalmente rafforzato la linea europeista intrapresa da Cameron, suo capo di partito.
Il premier è consapevole di aver disseminato da solo, lungo il suo percorso, le tagliole che potrebbero minarne la leadership e conta sul filo-europeismo dei laburisti di Jeremy Corbyn e dei nazionalisti scozzesi di Nicola Sturgeon, altrimenti pronti a tornare a votare per l’indipendenza se la Gran Bretagna dovesse decidere di uscire dall’UE. Da personalità politiche internazionali provengono atti e dichiarazioni di sostegno a Cameron, non ultimi gli assist offertigli da Obama e da Papa Bergoglio. La Brexit potrebbe innescare un effetto domino in Paesi dell’Unione, come Olanda e Svezia, non particolarmente allineati a politiche di crescente integrazione fra gli Stati membri, agendo come un virulento germe disgregativo. Detrattori dell’europeismo come Nigel Farage, leader di Ukip, espressione della destra populista britannica, contestano la risibilità delle concessioni accordate da Bruxelles, rispetto ai vincoli e alle progressive perdite di sovranità imposte dall’adesione a un organo comunitario che ancora non dà segni concreti di volersi riformare.
La contesa politica si arroventa sempre più con l’approssimarsi del voto e tutta l’Europa segue le tappe della vicenda con interesse, trepidazione e, forse, con la perversa curiosità di vedere come i sudditi di Sua Maestà dirimeranno l’amletico dubbio: Brexit o non Brexit?