Nomination di Hillary, ora duello finale con Donald

Non ha corso alle primarie né nel ruolo e, tantomeno, con la mentalità dell’outsider. E non succederà neppure nella prossima sfida col tycoon Donald Trump. Diciamoci la verità: la nomination di Hillary Clinton a candidato “dem” per le presidenziali Usa giunge tutt’altro che inaspettata. Donna e avvocato di successo, ex first lady, determinata e salda nelle passate e ben note traversie familiari, modello di riferimento per molte donne che credono nella totale emancipazione e affermazione al femminile anche in quelle aree di potere da secoli presidiate dall’uomo, Hillary si presenta all’elettore nella duplice veste di rassicurante déjà vu, poiché esponente di spicco dell’establishment americano e ideale continuatrice della politica riformista dell’uscente Obama, e di fattore d’innovazione, in quanto prima donna – nella storia degli Stati Uniti – a competere per la Casa Bianca.

La sua designazione a rappresentante del partito democratico nel duello finale per la governance del Paese è stata, dunque, un verdetto annunciato, sebbene la cosa, in alcune fasi cruciali del confronto col collega Bernie Sanders, sia sembrata affatto scontata. Contrariamente agli altri candidati in corsa, relegati da uno scarso appeal al ruolo di semplici comparse, il senatore del Vermont ha dato battaglia e filo da torcere fino all’ultimo; ancora oggi, attende gli esiti definitivi della campagna politica nello Stato della California, irrilevanti – a questo punto – a modificare l’assegnazione della nomination, ma strategici – in vista della Convention del prossimo mese di luglio – per ottenere una posizione di prestigio nella rinnovata geografia di partito, magari strizzando l’occhiolino alla poltrona di vice presidente, in caso di vittoria della Clinton sul rivale repubblicano. Nel corso della competizione elettorale, molti sostenitori, in prima battuta intenzionati ad aderire al programma di giustizia sociale di Sanders, hanno poi sterzato sul pragmatismo e sull’esperienza politica di Hillary, appoggiata dai cosiddetti poteri forti e percepita come candidato con maggiori chance di prevalere sull’esplosivo e imprevedibile Trump.

Dal canto suo, il controverso magnate newyorchese continua a mietere consensi nel milieu repubblicano, avversato solo dai leader del partito, costretti a turarsi il naso e a prendere le distanze ogni qualvolta le sue dichiarazioni, come ad esempio quelle contro le minoranze ispaniche e musulmane, siano tacciate di contenuti ad alto tasso razzista. Gli elettori conservatori, invece, sembrano gradire il Trump-pensiero su temi caldi come l’immigrazione e la condotta da tenere in politica estera, né mancano di supportare il loro leader anche con un certo fervore.

La Clinton, considerata un upgrade del sistema politico tradizionalmente di casa a Washington, dovrà dunque battersi contro l’arrembante populismo conservatore dell’omologo repubblicano, vera sorpresa e autentica novità sulla scena pubblica statunitense. Il pittoresco miliardario, dallo stile ruvido e aggressivo, imbarazza i vertici del suo partito ma attrae le folle con un linguaggio chiaro e netto, mordendo le terga a tutti quelli che si oppongono alla sua visione di cosa dovrebbe essere l’America.

Nel frattempo, Hillary – già virtualmente “incoronata” da Barack Obama – chiede unità tra le fila del partito, in attesa dell’endorsement di Sanders e dei suoi sostenitori, ormai prossimo ad arrivare. Proprio la prepotente ascesa dell’impetuoso Trump e della sua politica priva di bon ton potrebbe agire da veloce coagulante fra i democratici, appianando ogni divergenza intestina in nome del bene comune.

Comunque vada, si prefigura all’orizzonte lo scontro epico tra due realtà assolutamente antitetiche, una partita che non si giocherà sulle sfumature e sulle gradazioni di tonalità, ma su una scacchiera dove i quadranti possono essere solo bianchi o neri. Senza vie di mezzo.

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