Turchia ancora sotto attacco jihadista
Istanbul – Sono le 22.10, ora locale, di martedì scorso all’aeroporto Ataturk: si odono raffiche di fucile d’assalto e, poi, tre esplosioni in rapida successione. Questi, i tragici avvenimenti che hanno colpito ancora una volta la Turchia. Dell’attacco terroristico, i network televisivi diffondono tempestivamente immagini e video impressionanti. Fra le varie testimonianze filmate, particolarmente brutale quella manciata di secondi in cui si vede un poliziotto centrare uno degli assaltatori, avvicinarglisi mentre questi è a terra, per poi, improvvisamente, correre via in cerca di scampo quando capisce che l’uomo sta per farsi saltare in aria, cosa che puntualmente avviene – davanti alle telecamere della videosorveglianza aeroportuale – pochi istanti dopo.
Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio, ma le ultime notizie riportano il drammatico bollettino di 43 morti e 238 feriti. Una strage. Nessun italiano coinvolto; la Farnesina ha, comunque, istituito un’unità di crisi dedicata. Un duro colpo per il Paese della Mezzaluna, ormai percepito come poco sicuro e pericolosamente esposto al rischio d’incursioni terroristiche: a farne le spese, oltre la libertà individuale, è l’economia nazionale e, soprattutto, il comparto turistico, che – nell’ultimo anno – ha subito una flessione negativa pari al 34,7%.
Le indagini procedono speditamente e sembrano puntare con decisione sulla pista di un’azione firmata da jihadisti dell’Isis. Presumibilmente organizzati in un commando di sette elementi, i terroristi hanno adottato la solita ricetta: Kalashnikov e cinture esplosive. Il teatro operativo è stato selezionato in base al suo elevato indice di protezione armata predisposto dai militari e dalle forze dell’ordine, proprio per ottenere il massimo clamore mediatico e amplificare la sensazione di paura e impotenza in seno alle istituzioni e alla cittadinanza. Il gruppo di fuoco ha ingaggiato una furiosa sparatoria con la polizia turca nei pressi dei controlli di sicurezza, colpendo anche i viaggiatori in transito nell’area; poi, l’atto finale dei tre kamikaze, che hanno trasformato l’Ataturk – agli occhi del mondo – in un palcoscenico insanguinato. In seguito alla reazione dei reparti speciali, è stata tratta in arresto una donna. Gli altri tre terroristi superstiti sarebbero tuttora in fuga. L’identità dei tre kamikaze suicidi non è ancora ufficiale, ma – dalle prime indiscrezioni – trapela la notizia che sarebbero di origine caucasica.
A questo punto, è doveroso porsi qualche interrogativo sul perché dell’escalation di attentati in territorio turco. L’unica risposta sensata, a prescindere dalla matrice dell’attacco all’Ataturk, si trova nell’esame delle linee politiche di ultimo periodo, adottate dal presidente Erdogan. La Turchia è in prima linea, come Paese confinante, nel conflitto siriano ed Erdogan è riuscito, inanellando in breve tempo una serie di scelte sbagliate e assai discutibili, a crearsi nemici su fronti multipli. Il presidente turco, integralista islamico convinto, ha rischiato lo scontro aperto con Putin, all’indomani dell’abbattimento del caccia russo Sukhoi per presunto sconfinamento dello spazio aereo; è stato accusato di fare affari in combutta col Califfato per il tramite del figlio Bilial, a capo di una società di trasporti utilizzata per introdurre in Turchia petrolio proveniente dai pozzi siriani controllati dall’Isis; denaro a parte, avrebbe stretto patti con i miliziani della jihad, perché funzionali alla lotta contro il suo nemico interno curdo. Sarebbe, oggi, più logico pensare che l’attacco all’aeroporto di Instanbul sia opera di combattenti del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, nonché organizzazione paramilitare illegale in Turchia, spesso protagonista di azioni violente congiunte con i Peshmerga, miliziani curdo-iracheni), se non fosse per una sospetta coincidenza: il 28 giugno scorso, Erdogan ha siglato un’alleanza col governo di Tel Aviv in tema di approvvigionamento energetico, accordo che, di fatto, ricuce lo strappo fra i due Paesi, originatosi sei anni orsono con l’attacco israeliano alla Freedom Flottiglia per Gaza, battente bandiera turca; ha, inoltre, anche riallacciato i rapporti con Mosca, fino a poco tempo fa piuttosto tesi a causa della sua posizione anti-Assad e dei passati reciproci “sgarbi”. Un voltafaccia allo Stato Islamico, rafforzato dai recenti bombardamenti di Ankara a danni di sue postazioni lungo il confine siriano, che probabilmente non è stato gradito dai vertici del terrorismo.
I venti cambiano direzione velocemente e le piante che s’inclinavano su un lato, si flettono oggi dalla parte opposta: la conseguenza della metafora è che la Turchia deve ora guardarsi, più che mai con molta attenzione, sia dallo storico nemico interno separatista che dall’insidioso avversario esterno jihadista.