Mona Hatoum alla Tate Modern
Londra – La personale di Mona Hatoum che la Tate Modern le ha dedicato – visitabile fino al 21 agosto – è stata considerata una degli eventi dell’anno. E non è decisamente il caso dell’ennesima esposizione blockbuster per l’istituzione che trova spazio nell’ex-centrale termoelettrica. In mostra l’opera dell’artista libanese nell’arco degli ultimi 35 anni, da quando nel 1975 si è vista obbligata a fermarsi nella capitale inglese a causa dello scoppio della guerra civile nel proprio Paese.
In 14 sale vengono presentati i suoi lavori non in ordine cronologico ma come sequenze di giustapposizioni che in varie modalità mettono alla prova la visione comune del mondo, esponendone le contraddizioni e le complessità, spesso con risultati che creano sensazioni di disagio quando vengono presentati oggetti e situazioni che in partenza sono del tutto familiari. È infatti come questi sono presentati, giocando con effetti conturbanti, isolandone elementi e alterandone le proporzioni, dove i binarismi coesistono – il bello e l’orrore, il desiderio e la repulsione, la paura e l’affascinamento.
In Grater Divide del 2002 e Daybed del 2008 la scala viene aumentata all’esagerazione, e utensili della vita quotidiana diventano sconfortevoli e dolorosi elementi d’arredamento: il primo, una grattugia per il formaggio ispirata a un modello vittoriano diviene un séparé, mentre il secondo, una grattugia per gli ortaggi, un letto. Appena di fronte, Jardin Public del 1993, una sedia da giardino in stile francese dalla cui seduta spunta un cespuglio di peli pubici femminili.
L’allestimento per cui si è optato, si dimostra essere ottimale per la fruizione e l’attivazione delle opere dell’artista nata a Beirut da famiglia palestinese. Lei stessa ne ha attentamente selezionato il corpus esposto in quest’occasione; fondamentale per lei è che lei si potesse ancora relazionare a questi lavori, che infatti non mancano di punti di contatto pur appartenendo a periodi diversi.
Idee simili espresse in forme differenti, fonte inesauribile di nuove sperimentazioni, punto di partenza e ritorno, con la possibilità di spingerle sempre un poco più lontano. Idee ricorrenti, che come ritornelli scandiscono la pratica artistica dell’Hatoum. Sono queste opere create in responso a contesti politici e sociali, e a spazi che sono incastonati in culture diverse, in architetture, e nella storia degli spazi stessi. Mona si muove da un lavoro all’altro, spesso abbandonando il primo in favore del secondo; anni dopo, forse ritornerà all’idea iniziale con estrema libertà, in quanto lei non concepisce nessuno dei suoi lavori come un progetto finito.
Allo stesso modo, ritornano i materiali e la loro risonanza dal punto di vista tattile. Ritornano pure strutture articolatamente costruite, che richiamano l’architettura di un luogo d’esilio, imprigionamento, e dislocamento. Ritornano pezzi di mobilia che lei trasforma in “assisted ready-made” come lei stessa spiega, oppure che lei assembla in ambienti ammobiliati.
Un esempio del secondo è Interior/Exterior Landscape del 2010, installazione che occupa lo spazio di una sala che, delle dimensioni e dell’atmosfera di una cella carceraria, risulta essere tutto tranne sufficientemente grande, e l’effetto che ne deriva è profondamente asfissiante. È questa un’opera estremamente personale ma magistralmente capace di aprirsi al pubblico e di abbracciare l’universale. Quasi a significare una replica dell’intera stanza e dello stato d’animo da essa suggerito, è una gabbia da canarino che ospita una singola palla di capelli in un angolo. Il movimento ristretto di un individuo in esilio, l’isolamento, per quanto sussista la realtà dei viaggi e delle esplorazioni che l’Artista ha svolto in lungo e largo per il resto del globo.
Dai primi video che coinvolgono il corpo degli spettatori e il proprio, e dalle descrizioni di performance avvenute una sola volta, a opere su carta, documenti d’archivio, e grandi installazioni, l’opera dell’Hatoum comunica un senso d’urgenza e pericolo. In termini di panorama artistico, mina i principi del linguaggio visivo del Minimalismo e del Surrealismo, mettendo in dubbio i contorni delle geometrie del primo, esagerandole, e infettandole con materiali impuri, e attribuendo alle idee del secondo una presenza fisica e una carica sessuale tutta al femminile.
Mona Hatoum non ha certo bisogno di conferme, ma questa è pur sempre una consacrazione calata da una Tate Modern completamente nuova – il nuovo edificio progettato da Herzog & de Meuron è solo il primo passo – che si propone flessibile in risposta ai cambiamenti futuri del mondo dell’arte, quale paladina di una rappresentazione equilibrata di un mondo che dovrebbe essere cosmopolita; tanto che il nuovo allestimento della collezione permanente consta di 800 opere di oltre 300 artisti provenienti da più di 50 Paesi, per il 75% acquisite a partire dal 2000, con oltre la metà di sale personali dedicate ad artisti donna: ne risulta un’ensemble non privo di potenziale, ma a tratti stucchevole.