Tunisia, non dimentichiamoci di lei
La Tunisia deve essere appoggiata, politicamente, economicamente e militarmente. La sua caduta sarebbe un segnale molto negativo per tutto il Maghreb.
Lo storico accordo sull’Iran, il “felice” epilogo dei negoziati sulla Grecia, la discussa situazione turca non devono farci dimenticare la Tunisia. E’ necessario preoccuparsi per questo piccolo Paese, anello debole del Maghreb, situato a poche miglia dal’Italia. La Tunisia è la porta di entrata del sedicente Stato Islamico in Nord Africa. Se questo Paese cede, i vicini Algeria e Marocco non ne usciranno indenni. Anche l’Europa rimarrà scossa dall’onda d’urto: minaccia jihadista e arrivo di nuovi rifugiati. Non sorprende il fatto che il 15 Luglio di un anno fa, gli Stati Uniti abbiano concesso alla Tunisia lo statuto di “ principale alleato non-membro della Nato”. Uno statuto promesso da Barack Obama al Presidente Beji Caid Essebsi durante la visita di quest’ultimo a Washington, il 21 Maggio 2015. Questo permetterà al suo Paese (16° Stato, accanto a Marocco e Egitto, ad essere dotato di questo statuto) di far crescere la cooperazione militare con gli Stati Uniti e acquisire alcuni armamenti. Tunisi dovrebbe ricevere 12 elicotteri UH-60M, l’ultima versione dei Black Hawk, che andrebbero a sostituire i suoi vecchi apparecchi.
In realtà l’obiettivo di Washington è prendere due piccioni con una fava: aiutare Tunisi a lottare contro il terrorismo e posizionarsi alle porte della Libia, il “buco nero” che preoccupa gli Occidentali. Ricordiamo che tre responsabili del massacro del Bardo a Tunisi (18 Marzo 2015) e di quello di Port El-Kantaoui (26 Giugno 2015 – 60 morti in totale), sono passati da un campo di addestramento per tunisini a Sabratha. Entrambi gli attentati sono stati rivendicati dall’Isis. Tunisi vuole impedire con tutte le sue forze qualsiasi tipo di infiltrazione che arrivi dalla Libia e che i giovani tunisini si dirigano verso i campi di addestramento libici. Per questo ha cominciato a costruire un muro di terra circondato da un fossato tra le postazioni frontaliere di Ras Jedir e la borgata di Dehiba, sulla frontiera tra Tunisia e Libia. Dovrebbe essere pronto per la fine dell’anno, andando a coprire 168 km di frontiera su 520. La Libia ha più volte protestato per questa decisione “unilaterale” dall’efficacia dubbia. Secondo il Wall Street Journal, Washington vorrebbe anche avere delle agevolazioni per il posizionamento di droni in Tunisia e controllare così il viavai degli jihadisti.
In Tunisia gli jihadisti sono locali. E’ dagli anni ’90 e dalla repressione di Ben Ali contro i “barbuti” che i giovani oppositori si sono votati al salafismo. Ci sono sempre state presenze tunisine negli attentati avvenuti nel mondo negli ultimi 15 anni. Finti giornalisti tunisini hanno ucciso il comandante Massoud in Afghanistan. Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ritiene che attualmente sono 5000 i tunisini coinvolti nella jihad, divisi tra Libia (4000), Libia (1000) e Irak (200). In Mali e Yemen combattono, anche se in numero minore, al fianco di Al Qaeda. Globalmente formano la seconda comunità nella jihad in Medio Oriente dopo i sauditi. Il Primo Ministro Habib Essid ha fatto sapere che ultimamente è stato impedito di lasciare il Paese a 15.000 giovani. Altra preoccupazione: controllare le moschee del Paese. Tra il 2011 e il 2013, Ansar al-charia, movimento oggi affiliato a Daech, controllava 500 delle 5000 moschee. Da allora, lo Stato ha recuperato la maggioranza di esse, ma 80 moschee sarebbero ancora fuori controllo. Il Governo ha promesso di chiuderle anche se il compito non è facile. Se la Tunisia non vive il caos del quale si nutre l’Isis in Irak, in Siria, in Libia, ha delle fragilità che non possono essere sottovalutate e che spiegano, anche se in minima parte, questa attrazione dei giovani tunisini (apparentemente più che altrove) per il salafismo, in un Paese dove non esiste alcuna spaccatura confessionale.
Sono molte le fragilità che alimentano il radicalismo tunisino. Per esempio la disparità tra Est e Ovest. La modernizzazione della costa e la nascita di una importante classe media hanno fatto dimenticare che le regini dell’interno conoscono la disoccupazione e la povertà su larghissima scala. Nel Dicembre del 2010, è da Sidi Bouzid, piccola città di questa povera regione, che è partita la rivoluzione, l’unica della Primavera Araba ad essere stata scatenata da motivazioni sociali. Da allora, l’Ovest del Paese vota in maggioranza a favore di Ennahda, il Partito islamista, mentre la zona costiera sceglie Nidaa Tounes, il Partito laico del Presidente Essebsi. Di conseguenza non sorprende che sia questa regione diseredata – e non lontana dalla frontiera algerina – ad nascondere sui Monti Chaambi islamisti legati ad Al Qaeda. Il Sud del Paese è territorio di Daech. La frattura tra Est e Ovest del Paese rischia di amplificarsi per via delle difficoltà che colpiscono un’economia che poggia su tre pilastri: il turismo, l’energia e i fosfati. Il primo va molto male dopo l’attentato di Sousse. Gli jihadisti qui non attaccano gli straieri perché sono “miscredenti”, ma perché bisogna impedirli di portare valuta nel Paese e portarlo così alla deriva economica. Il secondo settore, l’energia, non rende più. Tunisi beneficia delle royalty che provengono dal transito del gas algerino diretto in Italia attraverso il gasdotto TransMed. Ma Roma dal 2011 ha ridotto la sua spesa del 50% e il prezzo del petrolio di è dimezzato in nove mesi. Per quanto riguarda la Compagnia dei fosfati di Gafsa, il terzo pilastro, in sciopero alla vigilia della Primavera Araba, non ha mai veramente ritrovato la sua piena salute.
Di fronte a queste difficoltà, come fa la Tunisia a farcela da sola? Ad Ovest, l’esercito algerino contribuisce al rendere più sicura la frontiera comune. Washington auspicherebbe che gli algerini si impegnassero di più. Ma ci sono delle resistenze. Per principio, Algeri rifiuta di agire all’estero. Oggetto questo di discussione all’interno del Parlamento algerino. Cosa fa l’Occidente? Non molto se non collaborare a livello di Servizi. Niente si sa più sul materiale militare “offerto” dagli Emirati, su modello di quello inviato dai francesi in Libano grazie a fondi sauditi. Ma a qualsiasi punto siano le trattative,armi arrivate o no, poco importa. Non è questo che porterà i giovani tunisini, provenenti da tutti i livelli sociali, a smettere di raggiungere i salafisti radicali.