Libia, il sequestro dei due tecnici italiani
Dopo la drammatica vicenda di Sabratha del marzo scorso, che ha visto coinvolti quattro lavoratori dell’azienda Bonatti di Parma, ritorna l’incubo del sequestro di nostri connazionali in Libia. Nella prima mattinata di lunedì scorso, a Ghat, nel sud del Paese, in un’area poco distante dal confine algerino, un gruppo di uomini mascherati ha rapito due cittadini italiani e un loro collega di nazionalità canadese.
Bruno Cacace, 56enne residente nel cuneese, e Danilo Calonego, 66enne del bellunese, sono tecnici in forza alla Con.I.Cos. (Contratti Italiani Costruzioni), società di Mondovì (Cuneo) impegnata nella manutenzione dell’aeroporto di Ghat, sito in una porzione di territorio sotto il controllo del governo d’unità nazionale, formalmente riconosciuto dalla comunità internazionale, con sede a Tripoli. Almeno sulla carta, la zona è classificata dai servizi d’intelligence italiani come “a medio rischio”: è abitata da tribù Tuareg più propense ad appoggiare l’Esecutivo tripolino di Al Sarraj che non l’ex “gheddafiano” generale Haftar ed è crocevia e luogo di passaggio per trafficanti d’ogni risma. Secondo alcune fonti libiche, i tre sarebbero stati bloccati e rapiti da individui armati, a bordo di fuoristrada 4×4, presso la cava di El-Gnoun, mentre percorrevano in auto il tragitto verso il posto di lavoro.
Non si hanno, al momento, notizie circa eventuali rivendicazioni. L’ipotesi più accreditata è che gli autori del sequestro siano criminali comuni che delinquono a scopo estorsivo. Pare che il luogo di detenzione dei rapiti sia stato individuato nel raggio di una trentina di chilometri da Ghat. Tuttavia, la preoccupazione maggiore della Farnesina è che, quand’anche si trattasse di bande locali, queste – non avvezze a negoziare riscatti direttamente con governi stranieri – valutino più veloce e sicuro “vendere” gli ostaggi a cellule di Al-Qaeda o dell’Isis, sovente in transito sulle linee di confine libico con Algeria e Niger. L’uso terroristico di prigionieri occidentali – per rivendicazioni politiche jihadiste contro la presenza italiana in Libia – non è elemento da far dormire sonni tranquilli; corre, tra l’altro, l’obbligo di far notare, coincidenza o meno, come l’ennesimo rapimento avvenga in concomitanza con la missione Ippocrate, che prevede il dispiegamento – in questi giorni – di 300 nostri militari a Misurata, per l’allestimento di un ospedale da campo.
Per tali ragioni, è fondamentale accertare chi ha in mano i due tecnici e quale potrebbe essere la contropartita per la loro liberazione. Il sindaco di Ghat, Komani Mohammed Saleh, principale punto di contatto per le autorità italiane, sostiene che i banditi siano noti nella zona. Sono stati disposti numerosi blocchi e check-point nell’area, onde tagliarne le possibili direttrici di fuga e impedire che i sequestrati siano spostati. La vicenda è seguita personalmente dal premier Renzi, in raccordo col ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e col sottosegretario con delega ai Servizi Marco Minniti ed è la Procura di Roma a essere incaricata dell’istruttoria per sequestro di persona con finalità di terrorismo.
Un’informativa sull’accaduto, redatta dai carabinieri del Ros, è già stata sottoposta al vaglio del pm Sergio Colaiocco: s’indaga sull’assenza di misure preventive di sicurezza come la scorta, che le aziende in Libia sono invitate ad adottare per la tutela del proprio personale, e si prevede di richiedere un interrogatorio dell’autista libico scampato all’imboscata. Sulla prima questione, la Con.I.Cos. avrebbe precisato che, per volontaria decisione dei due tecnici, convinti dell’adeguatezza del solo impiego di un autista armato, era stato annullato il relativo servizio di protezione.
Comunque sia andata, una volta di più ancora, ci sentiamo di avvallare fortemente l’indicazione, data dalle nostre autorità alle aziende italiane attive all’estero in scacchieri a rischio, di utilizzare, per quanto possibile, manodopera locale.