Ma Loute (Film, 2016)
Bruno Dumont non è un regista facile. I suoi film sono opere d’arte, come lui steso li definisce, e non prodotti commerciali, violenti e diretti da un punto di vista visivo, spesso indigesti e ricchi di sequenze che si fissano indelebili nell’immaginario dello spettatore. Ma Loute descrive una società decadente, in via di dissoluzione, agli albori della Prima Guerra Mondiale, narra lo squallore dell’alta borghesia precapitalista, imposta un discorso marxista sul netto divario tra ricchi imprenditori e poveri pescatori.
Dumont è autore in senso stretto, presenta uno stile riconoscibile, originale e ricco di caricature grottesche, non è certo autore da pellicole fotocopia come molte commedie italiane contemporanee. Un pregio assoluto di Ma Loute è la stupenda fotografia che immortala i suggestivi paesaggi marini della Francia del Nord, tra le scogliere a picco su un mare sconvolto dai venti e le ampie baie di Calais. Il trucco pesante e azzeccato dei vari personaggi è un altro pregio da non sottovalutare. Un enorme ispettore ruzzola sulla sabbia invece di camminare, a un certo punto si gonfia, mettendosi persino a volare; un capo famiglia gobbo e traballante ripete sempre le stesse frasi; una Juliette Binoche viene trasformata per l’occasione in allucinata donna aristocratica cantante di romanze. Brava anche Valeria Bruni Tedeschi in una parte da nobile aristocratica del tutto avulsa dalla realtà, che a un certo punto – pure lei – spicca il volo davanti a una scogliera.
Ma Loute è il buffo nome del giovane protagonista – il figlio di pescatori che s’innamora del figlio dei ricchi truccato da donna e infine di una sua pari, la serva di casa – ma significa in un gioco di parole per assonanza anche la mia lotta, in questo caso una lotta di classe. Il film di Dumont fa tornare alla memoria Marco Ferreri – grande regista italiano dimenticato – e la sua poetica dell’assurdo, condita di eccessi grotteschi e surreali, sapientemente miscelata con un discorso politico anticapitalista.
Un film condito da ironia surreale, grottesco, a metà strada tra il comico e il drammatico, con punte eccessive di horror cannibale (come si faceva una volta in Italia!), quando vediamo la famiglia di pescatori uccidere i ricchi villeggianti e cibarsi delle loro carni. Torna il paragone con Marco Ferreri – non solo con Joe D’Amato e Deodato per gli effettacci del pasto tribale – e viene alla memoria un film dimenticato come La carne, interpretato dalla coppia Castellitto-Dellera. Non trascuriamo Miracolo a Milano di De Sica e Zavattini, citato a piene mani nel finale con la doppia sequenza di volo sulla scogliera di Calais, prima della Tedeschi, quindi del commissario, che finisce abbattuto e sgonfiato da una raffica di pallettoni. Dumont si abbevera al cinema di Pasolini per il discorso antiborghese (come non citare Porcile?), ma anche a Ingmar Bergman per la fotografia e i tempi, per le costruzioni poetiche e narrative.
Soluzioni fumettistiche, quasi da cartone animato, per molte caratterizzazioni dei personaggi che sembrano usciti da un fumetto di Tin Tin o da un albo di Alan Ford. Interessante.
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Regia: Bruno Dumont. Soggetto e Sceneggiatura: Bruno Dumont. Fotografia: Guillaume Deffontaines. Montaggio: Basile Belkhiri. Scenografia: David Edouard. Costumi: Alexandra Charles. Trucco: Michèle Constantinides, Alexis Kinebanyan. Produzione: Rachid Bouchareb, Jean Bréath, Rémi Burah, Thanassis Karathanos, Muriel Merlin, Olivier Père. Casting: Clément Morelle. Interpreti: Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Jean-Luc Vincent, Didier Desprès, Laura Dupré, Brandon Lavieville, Cyril Ligaux, Angelique Vergara.
[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]