Quattro mosche di velluto grigio (Film, 1971)

Dario Argento è l’indiscusso padre dell’horror italiano, prende il meglio del cinema nero di Mario Bava e riesce a fonderlo in una miscela di macabro e di giallo che fa nascere un genere nuovo: il thriller argentiano. Proprio nel thriller contaminato da elementi orrorifici, Argento lascia il segno come autore, con il suo classico assassino in guanti neri (il regista è spesso il killer, nella soggettiva della mdp), inafferrabile, che uccide nei modi più efferati. Un’altra caratteristica del suo modo di narrare è la soggettiva dell’assassino che mette sempre lo spettatore dalla parte di Caino, come se stesse leggendo un romanzo scritto in prima persona dal serial killer. Dario Argento è un regista surrealista, crea un’estetica della morte e del delitto seguendo la lezione di Mario Bava e Alfred Hitchcock, ma tracciando una strada personale che farà scuola.

Prima del capolavoro conclamato – Profondo rosso (1975) – Argento lavora come critico cinematografico e sceneggiatore, collabora con Sergio Leone e Giuseppe Patroni Griffi, quindi debutta alla regia con L’uccello dalle piume di cristallo (1970), un thriller campione d’incassi grazie al passaparola che segna la nuova strada del giallo all’italiana. Un giallo ricco di elementi macabri che vanno dall’inafferrabile assassino in nero, ai paurosi delitti fotografati con dovizia di particolari. Argento dimostra abilità tecnica nell’uso di ralenti e soggettive, riprende i luoghi alternando esterni a interni e ambienta bene la storia. Il film mette in primo piano una figura di killer con impermeabile nero, guanti e cappello, divenuta un topos. La soggettiva dell’assassino fa parte dello stile di Argento, secondo la lezione di Bava (Sei donne per l’assassino, 1964), ma sono degne di nota anche le telefonate del maniaco, i rantoli, i sospiri, la caratterizzazione macabra dei delitti a base di coltelli e rasoi. Il gatto a nove code (1971) bissa il successo di pubblico del primo thriller, anche se la critica colta non comprende Argento, come non aveva capito Bava. Abbiamo un assassino che uccide per colpa di un’anomalia genetica, alcune sequenze sono ambientate in una cripta e ricordano i vecchi film gotici. Il film, scritto da Dardano Sacchetti e musicato da Ennio Morricone, vive di grandi momenti di tensione e di numerose soggettive dell’assassino. Argento si conferma mirabile confezionatore di omicidi, un vero genio nell’arte di riprendere la morte. L’estetica dell’assassinio è uno dei suo marchi d’autore, così come l’inadeguatezza dei dialoghi e la carente direzione degli attori sarà un difetto costante. Il gatto a nove code del titolo, altro non è che la matassa ingarbugliata che gli investigatori devono dipanare.

Quattro mosche di velluto grigio (1971) è il terzo thriller zoologico che conferma una moda seguita da molti registi, ma questa volta sono presenti elementi horror più marcati. L’horror è insito nel modo di rappresentare la realtà più che nella storia, nella tensione narrativa, nella presenza incombente di un assassino inquietante che si muove in notturni tenebrosi. Quattro mosche di velluto grigio è un film leggendario perché per molto tempo è stato introvabile. Finalmente passa in televisione nel 1991, ci vogliono anni per rivederlo sui canali di SKY (venerdì 26 giugno 2009 – Sky Max), nel 2016 viene presentato al Noir in Festival e My Movies lo diffonde in streaming gratuito, il 13 dicembre alle ore 21, restaurato e in edizione integrale. Leggenda sfatata.

La colonna sonora di Ennio Morricone, diretta da Bruno Nicolai, rende il film ancora più suggestivo e confeziona la cornice giusta per un soggetto interessante scritto dal regista insieme a Luigi Cozzi e Mario Foglietti. Il regista vorrebbe i Deep Purple, vista la grande passione per il rock, ma il risultato è altrettanto positivo, pure se Morricone coltiva un terreno per lui insolito. La pellicola è ricca di invenzioni visive, sin dal cuore pulsante che campeggia nei titoli di testa, ma soprattutto presenta i giocattoli per bambini in funzione horror. La maschera dell’assassino – che verrà scoperto grazie al medaglione con le quattro mosche di velluto grigio – è un pupazzo infantile. Le parti oniriche sono un elemento importante del film, perché il protagonista sogna sempre un’esecuzione araba con una testa tagliata dalla scimitarra.

Stile consueto a base di zoom, soggettive, primissimi piani, momenti di lunga e palpabile tensione che anticipa efferati omicidi. Nel convulso finale si comprende che il sogno è un’anticipazione di quella che sarà la fine dell’assassino, decapitato da una lamiera dopo un incidente d’auto. Il film è ricco di elementi fantastici, non ultimo quello della retina che resta impressionata da un’immagine al momento della morte, unico elemento che consente di individuare il killer. Numerosi gli elementi da thriller horror, come la sequenza nel parco introdotta da una musica per bambini e le esecuzioni feroci realizzate dal killer. La tensione è stemperata da elementi comici impersonati da Bud Spencer e Oreste Lionello, ma anche dalla presenza di Jeanne-Pierre Marielle nei panni di un investigatore gay.

Mimsy Farmer è una killer psicopatica ossessionata dal ricordo del padre, che si rivela solo nell’ultima scena ma prima uccide tutti coloro che si avvicinano alla verità. Michael Brandon è un ottimo protagonista nei panni di un batterista che ha sposato una donna molto ricca e si sente perseguitato da inquietanti presenze. Il killer è sua moglie, ma lui non lo sa. Molti riferimenti autobiografici, confessati dallo stesso Argento, che nella figura della donna omicida raffigura la ex moglie con cui aveva avuto un rapporto burrascoso. Michael Brandon e Mimsy Farmer vengono scelti proprio per la vaga somiglianza fisica con i coniugi Argento, pure se nel film tutto risulta estremizzato e condito da elementi comici spesso sopra le righe (si pensi alla sequenza del postino malmenato). Bud Spencer e Oreste Lionello non si vedono molto, ma ricoprono due ruoli diversi dal solito cliché, soffusi di costante ironia e comicità. Stefano Satta Flores è uno scrittore intellettuale, capellone e beat, come vanno di moda sul finire degli anni Sessanta.

Il film è girato tra Torino, Milano (sequenza della metropolitana) e Roma (baracche sul Tevere), con un evidente omaggio cinematografico rappresentato da un’inesistente via Fritz Lang (in realtà zona Eur), dove risiede il protagonista. Alcune location vengono ricostruite nei teatri di posa Elios, ma anche al Teatro Nuovo di Spoleto (la finta morte iniziale), mentre il parco del delitto che vede protagonista la cameriera è Villa d’Este, a Tivoli. Una sequenza onirica ripetuta è girata in Tunisia, con fotografia bianchissima, per immortalare l’incubo ricorrente dell’esecuzione capitale. La trilogia thriller lancia Dario Argento come nome nuovo del cinema italiano, apprezzato da un pubblico giovane a caccia di emozioni forti. Profondo rosso sarà la sua consacrazione.

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Regia: Dario Argento. Durata: 102’. Genere: Thriller. Soggetto e Sceneggiatura: Dario Argento, Luigi Cozzi, Mario Foglietti. Fotografia: Franco Di Giacomo. Montaggio: Franҫoise Bonnot. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Effetti Speciali: Cataldo Galliano. Scenografia: Enrico Sabbatini. Trucco: Paolo Borselli, Giuliano Laurenti. Assistenti Regia: Luigi Cozzi, Roberto Parlante. Produttore: Salvatore Argento. Casa di Produzione: Sede Spettacoli, Universal Productions France. Distribuzione: 01 Distribution. Interpreti: Michael Brandon (Roberto Tobias), Mimsy Farmer (Nina Tobias), Jean-Pierre Marielle (Gianni Arrosio), Bud Spencer (Diomede), Stefano Satta Flores (Andrea), Marisa Fabbri (amelia, la cameriera), Francine Racette (Dalia), Costanza Spada (Maria Pia), Calisto Calisti (Carlo Marosi), Oreste Lionello (Il Professore), Fabrizio Moroni (Mirko), Aldo Bufi Landi (Medico), Tom Felleghy (Poliziotto), Guerrino Crivello (lo zoppo, vicino di casa), Corrado Olmi (Portinaio), Gildo Di Marco (Postino), Leopoldo Migliori (Musicista), Fulvio Mingozzi (Manager), Dante Cleri (Commesso), Pino Patti (Inserviente), Ada Pometti (Donna), Jacques Stany (Psichiatra), Renzo Marignano (Becchino).

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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