Elettronica, un mercato da cambiare

Telefonini, cattiva notizia: inquinano, e tanto. Buona notizia: cambiare si può. I dati di uno studio della United Nations University dicono che dal 2007 sono stati prodotti tre milioni di tonnellate di rifiuti elettronici legati alla produzione di smartphone, e che si prevede di arrivare a cinquanta milioni di tonnellate nel 2017. Lo studio evidenzia che meno del sedici per cento dei rifiuti elettronici globali viene riciclato. I dati dicono che i miliardi di telefonini prodotti – 7,1 miliardi solo gli smartphone realizzati dal 2007 – finiscono nei rifiuti in media dopo due anni. Non per usura, lo sappiamo: per marketing. E’ chiaro allora che quello dell’elettronica, e dei telefonini in particolare, è un mercato da cambiare.

A dar voce all’allarme della comunità scientifica sulla insostenibilità del mercato elettronico mondiale così com’è oggi è il rapporto ‘From Smart to Senseless: The Global Impact of Ten Years of Smartphones’, diffuso da Greenpeace Usa all’inaugurazione del “World mobile congress” di Barcellona. Il rapporto mostra che, per alimentare il vorticoso mercato della telefonia, dal 2007 sono stati usati per la produzione di smartphone all’incirca 968 TWh, quasi l’equivalente di un anno di fabbisogno energetico dell’India. I dispositivi contribuiscono significativamente alla grande crescita dei rifiuti elettronici prodotti. Non si tratta di scarti ortofrutticoli o residui di giardinaggio, ma di materiali di grande impatto sull’ambiente: eppure solo il sedici per cento viene riciclato.

Dai dati diffusi da Greenpeace Usa è inevitabile trarre due amare considerazioni. La prima: che quella che era stata annunciata al mondo come una ‘light economy’, l’economia di internet, ‘leggera’ nei confronti dell’ambiente perché digitale e telematica, in realtà con i suoi milioni di tonnellate di inquinantissimi rifiuti, e con l’enormità dell’energia necessaria per produrla e tenerla ‘accesa’, ‘leggera’ per ora non lo è affatto. Quell’idea di ‘leggerezza’, così affascinante, non era legata al continuo rinnovo dei terminali, che considerava in numero sempre uguale. E’ un’idea che, sconfitta dalla iperproduzione di pezzi indotta dal marketing, si è trasformata in un’idea ingannatrice, anche a livello di pensiero collettivo, di comunicazione di massa e di marketing appunto; almeno finché non si giustifica eticamente legandosi da una parte al riciclo dei terminali e dall’altra all’utilizzo dell’energia rinnovabile per la loro produzione. La seconda: che quella che è stata assunta dai consumatori come la massima espressione della tecnologia, non essendo per ora concepita a priori per essere il più possibile riciclabile – come avviene per esempio nel mercato dell’automobile – ‘massima espressione della tecnologia’ al momento non lo è.

Di fatto, il mercato dell’elettronica sembra rimasto indietro decenni rispetto all’economia evoluta, ovvero l’economia circolare, quella del riciclo e del riuso. Non solo i prodotti dell’elettronica non sono in gran parte riciclabili: come se non bastasse, più si va avanti e più il mercato dell’elettronica produce oggetti destinati – per marketing – a vita sempre più breve, il che alimenta la produzione e vendita di altri milioni di esemplari per sostituirli, ed i rifiuti crescono in progressione geometrica. Un gioco che finora è rimasto poco visibile per ragioni ‘quantitative’, perché gli oggetti elettronici non sono ingombranti come le automobili, i tir e le petroliere: ma che ormai l’enormità di rifiuti accumulati, che per giunta sono ‘qualitativamente’ importanti, sta portando drammaticamente alla luce.

Nel 2020 le persone che possiederanno uno smartphone saranno 6,1 miliardi, evidenzia Greenpeace Usa. “Se tutti gli smartphone prodotti nell’ultimo decennio fossero ancora in uso, ce ne sarebbero abbastanza per ogni persona sul pianeta. I consumatori sono spinti a cambiare telefonino così spesso che la media di utilizzo è di soli due anni: l’impatto sul pianeta è devastante”, ha affermato Elizabeth Jardim di Greenpeace Usa nel presentare il rapporto. “Quando si considerano tutti i materiali e l’energia richiesta per realizzare questi dispostivi, la loro durata e il basso tasso di riciclo, diventa chiaro che non possiamo continuare su questa strada. Abbiamo bisogno di dispositivi che durino più a lungo e, in sostanza, abbiamo bisogno di aziende che adottino un nuovo modello di produzione circolare”. Greenpeace chiede all’intero settore IT di adottare un modello di produzione circolare, in modo da affrontare alla radice molte di queste sfide ambientali.

Ora, il fatto è che le aziende non sono amebe, ma hanno cervelli e know-how per riuscirci: non hanno difficoltà, se vogliono, a cambiare, a vantaggio in primo luogo di se stesse. Fra gli operatori del marketing potrebbe cominciare a circolare l’idea che la fortuna della prossima startup o di una major dell’informatica potrà essere la durata degli hardware ed il loro riciclo: una ‘rivoluzione’ che nell’ambiente del marketing, innovativo per le tattiche ma – paradossalmente – troppo spesso conservatore nelle strategie, richiede coraggio. Una rivoluzione che però il mercato, che nella fascia ‘di punta’ per l’elettronica – quella dei ‘paesi ricchi’ – è fatto di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità dei prodotti, è probabilmente già pronto a premiare.

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[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]

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