Solo un film o specchio di un’epoca di passaggio?
Sta per compiere quaranta anni di vita e li porta magnificamente, la sua musica è energia allo stato puro, ed è bello sentire il ritmo di Saturday Night Fever che scorre ancora. Impossibile resistere alla voglia di muovere qualche passo di danza sulla colonna sonora dei Bee Gees, in un album che, fino all’arrivo di Michael Jackson e il suo Thriller, è stato uno dei più venduti di sempre. Uscito nei primi giorni di dicembre del 1977 e la critica è stata unanime nel riconoscere il valore del film e delle interpretazioni del decisivo trampolino di lancio per John Travolta. E rivedere quelle scene a distanza di anni, però impone riflettere su quali anni fossero quelli della Febbre del sabato sera.
Era un’America che usciva dal Sessantotto e dalla contestazione, dalla guerra del Vietnam, da Nixon e Kissinger. Presidente era Jimmy Carter, ricordato più per quanto fatto negli anni successivi che non nel quadriennio forse fatto apposta per preparare l’epoca di Ronald Reagan. La musica del film sembra un segno di rottura con quella di Dylan, di Joan Baez e coloro che avevano caratterizzato gli anni precedenti. Non è più il momento degli hippy e della ricerca altrove di sé stessi. I ragazzi lavorano e hanno bisogno di avere a disposizione il sabato, per scrollarsi di dosso in una sera i problemi della settimana. È uno stridente conflitto con la voglia di partecipazione dei loro coetanei di dieci anni prima. Resta la voglia di trasgressione, ma è diversa da quella di chi caratterizzava Woodstock. La sera del sabato, i colori e il sound della discoteca sono una valvola di scarico a tutto ciò che si è accumulato: lavoro, famiglia, fidanzate. Ed ecco che il ballare in gruppo, seguendo un ritmo che senti dentro, trovare una ragazza e bere con gli amici diventa un’anestesia per tutti i problemi.
Ma il film lancia un messaggio che va oltre; un messaggio forse non capito, celato dal velo della musica, e quindi sfuggito. La storia di non amore, se non quello per il ballo, tra i due protagonisti, Travolta – Manero e Stephanie, si muove sulle vicende personali di una generazione che sta crescendo e cambiando. Forse maturando. Emblematiche alcune scene che, non a caso, si svolgono fuori dalla discoteca. Nella prima Travolta, dopo un battibecco con il proprietario ed essere stato licenziato, torna al negozio di vernici per richiedere le sue spettanze. Il proprietario invece lo riassume. Ma l’apparente felicità del momento viene incrinata quando il ragazzo vede i suoi compagni di lavoro e si immagina un futuro a vita dentro il negozio.
Logico il successivo sviluppo nel percorso del protagonista che, oltre a capire dopo la gara di ballo come stesse vivendo qualcosa di non vero, nel finale decide di cambiare: avere un futuro diverso, di prendere una casa dove andare a vivere da solo e imparare a fare un lavoro.
È passata l’epoca di un impegno sociale ormai fuori moda, di un sessantotto che era già terminato e solo altrove (magari in Italia) portava ancora pesanti strascichi ed effetti non sempre positivi. Non erano ancora gli anni dell’edonismo reaganiano e del rampantismo, ma il messaggio giunge chiaro: è il momento di cambiare, di uscire da schemi stantii e imposti da famiglie e luoghi comuni. Chissà se l’intenzione era solo veramente quella di un film musicale in cui esaltare la Disco Music che si stava affermando e che quasi improvvisamente, solo pochi anni dopo, venne demonizzata.
Al di là della musica, Saturday Night Fever ha un valore anche sociale, non solo come fotografia di un luogo, di una generazione e di un’epoca in cui si sentiva la necessità di qualcosa di nuovo e ci si stava forse inconsapevolmente preparando ad un decennio che di cambiamenti ne avrebbe visti non pochi. Resta in ogni caso un momento del cinema importante e alcune frasi che potrebbero passare alla storia come “…chi se ne fotte del futuro!”. Ma ancora di più la risposta che Travolta riceve: “Il futuro non si fa fottere. Il futuro casomai fotte te. Quello ti aspetta sempre”.
Il film, oggi, rimane una meravigliosa fotografia del passato che ha forse aperto importanti finestre sul futuro. In ogni caso, buon compleanno. Quaranta e non sentirli al ritmo ancora dei Bee Gees.
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