Diritto alla felicità e Felicità Interna Lorda

Nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 viene per la prima volta introdotto, in un atto di natura parlamentare o costituzionale, dopo i fondamentali diritti della vita e della libertà, quella del pursuit of happiness. Benjamin Franklin, che fu tra i principali protagonisti di quell’evento, ha specificato che la Costituzione non garantisce il diritto alla felicità, ma quello di perseguirla: sta a ciascuno di noi farlo.

Chiedimi se sono felice, è il titolo di un film di alcuni anni fa in cui i protagonisti misuravano le loro vite quotidiane con il parametro di questo concetto apparentemente chiaro ma difficilmente identificabile e descrivibile a causa delle innumerevoli sfaccettature soggettive che contribuiscono a crearla. Non si vuole scendere in figure retoriche o buone per un post sui social, ma è chiaro che mentre per un povero la felicità sia un pasto ed un letto, per qualcuno può esserlo un abito nuovo, la promozione a scuola, estinguere un mutuo o vedere la propria squadra del cuore vincere l campionato. Ma è altresì chiaro che i padri fondatori degli Stati Uniti non intendevano certo questo quando sancirono il diritto inalienabile della ricerca della felicità. E sussistono pochi dubbi che, inserendo questo concetto in un documento di carattere rivoluzionario, già si fornivano importanti e pesanti indicazioni per i legislatori successivi: sarebbe stato loro compito mettere a disposizione dei cittadini tutti gli strumenti necessari per realizzarsi nella loro diversità, togliendo tutti gli ostacoli che potessero incontrare sul loro percorso. Si vede un’analogia con l’articolo tre della nostra Costituzione dove si indica tra i compiti della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli che limitino libertà e uguaglianza.

Anche nelle parole del Dalai Lama la felicità è individuata in un obiettivo da perseguire e che vada oltre quella effimera dei piaceri fisici; oltre a quella spirituale e della mente il Premio Nobel per la Pace rileva che “a livello nazionale e mondiale abbiamo bisogno di un sistema economico che ci aiuti a perseguire la vera felicità. Il fine dello sviluppo economico dovrebbe essere quello di facilitare e di non ostacolare il raggiungimento della felicità».

La felicità del 1776 non è quella di oggi nelle sue piccole esternazioni individuali, e cercare di dare definizioni assolute è compito probabilmente difficile anche per i filosofi, i sociologi e gli psicologi secondo i loro diversi punti di vista. Questo concetto ha trovato oggi una chiave di lettura che la pone come elemento di valutazione nel benessere di una nazione. Il piccolo Stato del Bhutan, un’enclave asiatica nell’Himalaya, ha adottato come metodo di valutazione del benessere della popolazione la FIL o Felicità Interna Lorda (GNH Gross National Happiness) che è stato anche inserito nella Costituzione: “Lo Stato si sforza di promuovere quelle condizioni che consentano di perseguire la Felicità Nazionale Lorda”.

Qualità dell’aria e dell’ambiente, salute dei cittadini, istruzione, rapporti sociali sono gli indicatori di questo concetto a dir poco evanescente, ma indicativo di come il benessere possa trovare parametri di riferimento diversi da quelli prettamente economici del PIL. Peraltro l’uso del FIL in Bhutan è stato considerato propaganda come tentativo di distogliere l’attenzione dalla violazione di diritti umani posti in essere e di pulizia etnica. In ogni caso la FIL potrà essere considerato come mezzo di misurazione che, unito ad altri, potrà dare indicazioni sul benessere e la qualità di vita in una nazione.

Resta però la domanda a cui dare una risposta sembra impossibile perché la felicità di ognuno può essere anche, non troppo paradossalmente, l’infelicità dell’altro: in Italia l’esempio è il Palio di Siena, dove la felicità, più della vittoria, è la non vittoria della contrada rivale. L’economista Easterlin con la teoria del paradosso della felicità rileva che dopo il raggiungimento di una certa soglia di ricchezza, il livello di felicità diminuisce.

Forse, allora, la soluzione potrebbe essere proprio in una rilettura delle parole di Franklin per comprenderne il significato, specialmente in una società come quella attuale vengono lanciati troppi segnali che la felicità possa essere rappresentata dai tanti beni materiali cui è sempre più facile avere l’accesso e concentrarsi più sul percorso che non sul traguardo. Potrebbe essere già il percorso una forma di felicità. Ed ecco che il messaggio, lo stesso dei padri fondatori, non è quello di garantire ai cittadini certezze assolute se non quelle di mettere a loro disposizione i mezzi e gli strumenti per raggiungerle. Eguaglianza? Sì: nelle opportunità. E potrebbe già essere una forma di felicità.

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