Brexit, al capolinea?

La prossima settimana potrebbe essere decisiva per  la Brexit. Il  martedì 12 il Parlamento britannico tornerà infatti a votare l’accordo concluso lo scorso anno tra GB e UE, e già bocciato in una prima votazione a dicembre. In un voto recente, la Camera dei Comuni aveva approvato quasi all’unanimità una risoluzione bipartisan, che prevede, in caso di nuova non approvazione, un’altra votazione mercoledì 13, per eventualmente autorizzare un ritardo di qualche mese nell’uscita dall’Unione, prevista per il 29 marzo. La risoluzione permette di postergare per il momento un’uscita senza accordo, che da molti è vista come una catastrofe economica (ma a che fine? Nella speranza di un nuovo improbabile negoziato?). E difatti a votare contro sono stati una ventina di conservatori fanatici pronti a uscire comunque dall’UE, anche senza accordo, scontando i danni per l’economia, pur di recuperare una (utopica) sovranità.

La signora May – che, a difetto di successo politico, sta dando prova di una tenacia quasi patetica – cerca di sfruttare al massimo la situazione. Nel suo ultimo discorso, ha lanciato un avvertimento che sa di ricatto: se non votate il mio accordo, rischiamo di ritardare di altri cinque o sei mesi l’uscita dall’Unione, o di uscire senza accordo o persino di non uscire mai (se dovesse tenersi un nuovo referendum, che ora finalmente i laburisti si sono decisi a proporre). Allo stesso tempo, sta facendo un ultimo appello ai leader europei perché facciano un ultimo sforzo per trovare un compromesso sul problema del confine irlandese. Insomma, sta lavorando su due fronti per cercare di convincere i conservatori meno fanatici ad appoggiare l’accordo, ottenendo però dall’Europa qualche miglioramento al testo.

Vista dal di fuori, parrebbe una tattica difficile da riuscire: sul fronte interno c’è qualche segnale di resipiscenza almeno tra i conservatori meno estremisti. Sul piano esterno, può darsi che trovi qualche ascolto presso paesi minori e più affini, come la Danimarca, ma dubito che possa ottenere vere concessioni sufficienti e non cosmetiche. Possibilmente, la sua forza sta (secondo un’acuta analisi del gruppo di studi inglese OMFIF, che parla di “apice del paradosso”) nella debolezza e quasi assurdità della sua posizione. Ad ogni modo, c’è da aspettarsi che i voti del 12 e, se del caso, del 13, segnino il capolinea di questa vicenda tragicomica, durata ormai anche troppo.

Capisco la volontà delle persone sensate, in Gran Bretagna e in Europa, di realizzare una separazione consensuale non troppo traumatica. La diplomazia è, del resto, lunga pazienza ma ci sono limiti di serietà che non dovrebbero essere superati mai. Molto francamente, a questo punto, quelli a cui l’accordo non piace si prendano le loro responsabilità.  Mi sono riletto un vecchio discorso di Churchill degli anni ‘50; egli disse allora profeticamente che l’Inghilterra è “dell’Europa, ma non con l’Europa”. Ho scritto ancora prima del referendum, e continuo a pensarlo, che la GB fuori dell’Unione non è un danno serio per noi europei. I matrimoni di pura convenienza non vanno bene, specie poi quando questa convenienza da una delle due parti è posta in dubbio. E in generale non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Per cui, a Londra si decidano. Se vogliono tanto andarsene, se ne vadano e amen!

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