Il pasticcio della Brexit

Il Consiglio Europeo di giovedì ha accettato la richiesta britannica di una proroga all’uscita della Gran Bretagna dall’UE, ma non nel modo indicato da Theresa May. Lei aveva chiesto un rinvio fino al 30 giugno, senza indicare speciali condizioni. I 27 Paesi membri hanno limitato il rinvio al 22 maggio (cioè prima delle Elezioni europee, in modo da eliminare il dubbio sulla partecipazione britannica ad esse), ma hanno subordinato questa data al voto positivo della Camera dei Comuni sull’accordo UK-UE già respinto due volte (hanno quindi escluso la possibilità di riaprire il negoziato). Se l’accordo fosse nuovamente bocciato, l’uscita dall’UE sarebbe anticipata al 12 aprile. Così facendo, i 27 hanno preso in mano calendario e agenda dei rapporti con l’UK, nell’intento, esplicitamente dichiarato da alcuni membri del Consiglio Europeo, di “mettere un minimo di ordine nel caos”.

La via parrebbe dunque chiara: la May dovrà nuovamente porre l’accordo al voto del Parlamento, probabilmente (ma non sicuramente) la prossima settimana (non è chiaro se e come potrà superare le obiezioni del Presidente della Camera a un nuovo voto). Nel frattempo, cercherà di convincere i deputati irlandesi unionisti e gli “hardliners” del suo partito. Se non ci riuscisse, il voto potrebbe anche slittare ma, tenuto conto delle decisioni del Consiglio Europeo, non oltre il 12 aprile. Se comunque  il voto fosse positivo, il problema sarebbe risolto. Altrimenti, secondo la decisione del Consiglio Europeo, spetterebbe a Londra indicare la via da seguire. Quale? Lo scenario considerato a Bruxelles più probabile è l’uscita senza accordo, un’eventualità ritenuta dannosa per l’economia inglese (ma è quella preferita dagli antieuropei puri e duri), ma anche per i membri dell’Unione, in quanto capace di alterare gli esistenti flussi commerciali. Una possibilità è che la May rimetta al Parlamento la possibilità di indicare, attraverso voti appunto “indicativi”, non più solo quello che il Parlamento “non vuole” ma, alla fine, quello che vuole.

A questo punto il vecchio accordo potrebbe essere accantonato e potrebbe aprirsi un negoziato per un modello distinto di rapporti UK-UE (sull’esempio dell’accordo con la Norvegia o con il Canada). Una possibilità subordinata è che l’accordo possa essere approvato, ma con la clausola, voluta dai laburisti, di una successiva sottomissione a referendum popolare, nel quale dovrebbe essere però lasciata la possibilità alternativa di rimanere nell’UE (va notato che una consultazione “on line” a favore di rimanere ha già raccolto oltre tre milioni di firme, il che è naturale, considerando i milioni di inglesi – oltre il 48% – che votarono a suo tempo a favore dell’Europa). Naturalmente, ogni soluzione diversa dal “no-deal” solleva  ardue difficoltà tecnico-legali e richiede buon senso e pazienza da tutte le parti, che non abbondano nel gruppo dei fanatici anti-europei, dai quali la May è accusata dai moderati di concedere troppo (allo stesso tempo, dagli estremisti viene accusata di cedimento di fronte a Bruxelles). Insomma, se una cosa è chiara, in questo pasticcio, è che nulla è chiaro, e la realtà supera sempre la più incontrollata fantasia.

Intanto, il Governo inglese si sta affannosamente preparando ad un’uscita senza accordo. The Guardian ha appena pubblicato un documento segreto nel quale vengono identificate undici aree nelle quali l’uscita può provocare gravi problemi per un periodo di molte settimane: trasporti, transito di persone alle frontiere, ingresso di prodotti essenziali, sanità, energia, sicurezza e così via. Il Governo ha emanato istruzioni a tutte le sue branche e a tutte le Autorità locali, indicando una serie minuziosa di comportamenti da adottare, ma il panorama è così fosco che sono previste persino misure militari. Il documento si riferisce a un periodo immediatamente successivo all’uscita, non alle conseguenze economiche di medio-lungo termine, che sono state già largamente studiate dalla Banca d’Inghilterra e da gruppi di analisi come l’OMFIF (Official Monetary and Financial Institutions Forum). Conseguenze, penso, più serie di quelle (forse un po’ esagerate) previste per l’immediato. Il tono del documento è comunque drammatico,  pare un documento di preparazione a una guerra (ed è così forse che la vedono i fanatici “brexiters”). La questione che non può non porsi, per l’ennesima volta, è perché tutto questo?

La risposta la trovo nell’introduzione scritta da John Le Carrè ad uno dei suoi libri: la sconsiderata arroganza inglese, l’ignoranza del mondo al di là del Canale, l’illusione sciovinista di essere ancora  importanti e decisivi nel mondo, l’utopia del “far da sé”, quella di poter contare ancora sull’ex-Impero e sulla relazione speciale con gli Stati Uniti, il bisogno di crearsi un nemico: volta per volta i russi, i tedeschi, i giapponesi, un tempo i tedeschi, oggi Bruxelles e i “maledetti europei”).

C’è da sperare che questo tipo di follia autodistruttiva non infetti gli italiani al di là di un po’ di folclore leghista-grillino, e che l’ esempio inglese insegni quale caos provochi il voltare le spalle alla casa comune, e gettare a mare un grande ideale, e concreti interessi nazionali, per rincorrere l’illusione del sovranismo nazionale in un mondo sempre più interconnesso e globale.

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