Ultime sulla Brexit

Il Presidente della Commissione Europea, Juncker, ha detto che “tutti capiscono l’inglese, ma nessuno capisce gli inglesi”. Ha tutte le ragioni. Quello che sta accadendo a proposito della Brexit sfida qualsiasi comprensione. Governo e Partito Laburista inglesi stanno faticosamente negoziando un compromesso, che dovrebbe consistere nella previsione di un’Unione Doganale con l’Europa dopo l’uscita. Ma una parte consistente dei laburisti chiede anche un referendum confermativo (con la possibilità di revocare l’uscita). Nessun conservatore può accettarlo, e per molti nel partito la stessa idea di unione doganale è inaccettabile. E tutto sommato con qualche ragione.

Unione doganale significa, non solamente restare inclusi nell’area europea di libero scambio, ma accettarne la politica commerciale comune. Posto che una delle ragioni invocate per la Brexit è recuperare la libertà commerciale, un’unione doganale frustrerebbe questa aspirazione. Con l’aggravante che se, stando dentro all’UE, la Gran Bretagna può contribuire a determinarne la politica commerciale, stando al di fuori può solo subirla. Per aggirare il problema, la May pare abbia proposto un’Unione Doganale temporanea, di qualche mese, per lasciare la possibilità al prossimo governo che succederà alle sue dimissioni da tante parti richieste, di stabilire una linea definitiva. Data la concreta possibilità che alla May succeda un Primo Ministro “hardliner”, è molto difficile che i laburisti si lascino intrappolare.

Un’intesa pare dunque ardua, ma il peggio è che, se fosse raggiunta su una base di estremo compromesso, con grande probabilità non passerebbe in Parlamento, per le opposte ma coincidenti resistenze di laburisti e conservatori dissidenti. Va rilevato che le ultime elezioni locali hanno inflitto ai due partiti una vera batosta, a profitto dei Liberal Democratici e dei Verdi (ambedue pro-europei). Per cui sia la May che Jeremy Corbyn sono in una posizio0ne di estrema debolezza.

Intanto, in seno al governo si ammette che la partecipazione alle elezioni europee del 23 maggio è ormai quasi inevitabile. Se così è, si assisterà all’estremo paradosso di un Paese che vota per mandare rappresentanti a un Parlamento dal quale usciranno subito dopo. Un’assurdità. Però anche gli antieuropeisti più convinti, come Nigel Farage, oggi sono favorevoli a quelle elezioni, nella previsione di ottenere un risultato che li metta al centro dello scenario. Per ragioni inverse, sono favorevoli gli europeisti, che sperano di togliere voti ai due principali partiti; e questi ultimi, che si apprestano a essere perdenti, guardano alle elezioni con rassegnazione.

Un labirinto, dal quale non si vede uscita. Questo perché Corbyn non fa il suo mestiere di oppositore e non schiera decisamente il partito su una linea favorevole a un referendum, ossessionato com’è dal timore di perdere sulla destra i deputati favorevoli all’uscita dall’Europa (anche se minoranza). Ma soprattutto, il pasticcio è reso grave e difficilmente sanabile dal tenace rifiuto della May di dimettersi e fare quello che in un paese democratico, e tanto più nell’Inghilterra madre della democrazia, sarebbe normale: convocare nuove elezioni e lasciare al successivo governo e parlamento decidere (entro il limite del 31 ottobre fissato dal Consiglio Europeo) il da farsi.

Juncker ha avuto ragione a dire, alla fine del suo intervento: alla fine si decidano, se restano dentro, restino e, se se ne vanno, se ne vadano. L’Europa ha problemi più seri della permanenza o meno della Gran Bretagna e ad essi deve dedicare la sua attenzione, non ai capricci di un popolo che europeo non si è veramente sentito mai.

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