Crisi nel Golfo

La decisione di Donald Trump di denunciare l’accordo sul nucleare iraniano ha elevato di molti punti la tensione nel Golfo. Obiettivi sauditi sono stati fatti oggetto di attacchi vari: due petroliere sono state danneggiate da mine nelle acque degli Emirati Arabi, un attacco fallito ha avuto luogo contro un porto saudita e il territorio del Regno è stato colpito da razzi lanciati dai ribelli yemeniti appoggiati dall’Iran. Il Consigliere americano per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, in visita ad Abu Dhabi, ha direttamente accusato il regime di Teheran di questi atti, annunciato che ne porterà le prove al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e minacciato dure reazioni americane (forse vanno relativizzate pensando che lo stesso Bolton le aveva minacciate contro Maduro, che sta tuttora a Caracas). Il Re dell’Arabia Saudita, a sua volta, ha convocato il Consiglio di Cooperazione del Golfo e la Lega Araba, “per far fronte ai crimini iraniani”.

Fin qui la retorica, altro è capire cosa avverrà realmente sul terreno. I Paesi del Golfo, Arabia Saudita inclusa, nonostante la loro ricchezza, non dispongono di forze militari all’altezza di quelle dell’Iran e dipendono per la loro sicurezza dagli Stati Uniti, che nella Regione hanno una imponente presenza militare, con basi in Qatar e Bahrein, e l’hanno rafforzata con l’invio del gruppo portaerei Lincoln, che dispone di una elevata potenza di fuoco. Ma, per quanto imponente, è difficile pensare che questa forza possa intraprendere vere e proprie azioni di guerra in una zona così facile a prendere fuoco, senza aver prima costruito.

Gli Stati Uniti non possono evidentemente abbandonare i loro alleati arabi, ma fino a che punto è disposto ad andare Trump? La sua “gestione delle crisi” si è mostrata fin qui, con la Corea del Nord e il Venezuela, francamente erratica e inefficace e alla fine più che altro declamatoria. Bullismo alternato ad aperture quasi ingenue. Anche in questa crisi, il Presidente si è detto pronto a incontrare l’Ayatollah Rohani, Presidente iraniano, sempre credendo evidentemente nel potere taumaturgico  degli incontri personali dove lui pensa di essere irresistibile. E anche stavolta dagli USA si sono agitate vaghe visioni di iniziative economiche che dovrebbero fare della Regione un Eldorado (come se fosse questa la preoccupazione del fanatismo islamico). A parte le difficoltà tecnico-militari di un conflitto (che sarebbe ben maggiore di quello vinto con l’Irak e avrebbe molto meno appoggio internazionale), Washington deve tener conto di fattori politici importanti: numero uno, i rapporti con la Russia che, per quanto deteriorati, non penso Trump voglia abbandonare del tutto; e in secondo luogo Israele e il conflitto con i Palestinesi, che il genero presidenziale, Jared Kushner, sta tentando di portare a soluzione (con una enorme dose di insipienza). Israele sa di essere il principale obiettivo dell’Iran ed è ovvio che, come ha spinto per la denuncia dell’accordo sul nucleare, ora spinga per una linea dura, ma nei conflitti interni al mondo islamico un’interferenza militare israeliana non può che complicare enormemente le cose.

Israele è entrato in fase di crisi politica, non essendo Netanyahu riuscito a formare un governo, per cui ci saranno  nuove elezioni il 17 settembre. Ma nel frattempo, al governo, sia pure ad interim, ci sarà lui e non credo che possa o voglia abbassare la guardia. Basta che per ora tenga a freno i suoi “cani da guerra”.

In una crisi di questa serietà, si vorrebbe sperare che le due parti ragionino a mente fredda e, trattandosi degli Stati Uniti, che avessero una strategia ragionevole e coerente: ma è troppo aspettarselo da Donald Trump.

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