Iran, guerra “preventiva” di Trump?

Dopo aver deciso di inviare 1500 soldati in Medio Oriente, il Presidente americano accoglierà anche le richieste dei guerrafondai di Washington? Gli Stati Uniti sono agli albori di una guerra contro l’Iran?

La settimana scorsa, il Presidente americano Donald Trump ha fatto sapere che avrebbe inviato altri 1500 soldati in Medio oriente visto il contesto di contrasti sempre più serrati con la Repubblica islamica. “Invieremo un numero relativamente scarso di truppe, per lo più preventive, e alcune persone molto talentuose si stanno recando in Medio Oriente in questo momento”, ha dichiarato dalla Casa Bianca. “A partire saranno intorno alle 1500 persone”. In un comunicato, il Segretario alla Difesa ad interim, Patrick Shanahan, ha precisato che l’invio di queste forze mirava a “migliorare la protezione e la sicurezza delle forze americane, tenuto conto delle persistenti minacce da parte dell’Iran, compresi i Guardiani della rivoluzione e i loro sodali”, ossia il corpo di élite della Repubblica islamica e le milizie sciite della regione a loro sottomesse. Questo spiegamento di forze americane include un battaglione di 600 uomini dotati di quattro batterie antimissili Patriot che già si trova nella regione, portando il numero di rinforzi effettivi a 900, ha sottolineato l’ammiraglio Michael Gilday, uno dei responsabili dello stato maggiore americano secondo l’Agenzia France Presse. Gli effettivi dovrebbero essere inviati nelle basi di cui già dispongono gli Stati Uniti in Medio oriente, ma né Iraq né in Siria, ha precisato il Pentagono. Degli apparecchi di ricognizione e di sorveglianza e uno squadrone di 12 caccia dovrebbero completare il dispositivo.

Secondo gli ultimi dati resi noti dal Pentagono, gli Stati Uniti disporrebbero oggi di 70000 soldati nella zona coperta dal Centcom, di cui 14000 in Afghanistan, 5000 in Iraq, e meno di 2000 in Siria. Intervistato da giornale francese  Le Point , Hamzeh Safavi, professore di scienze politiche all’Università di Teheran, esclude l’idea di un conflitto imminente. “Il numero relativamente poco elevato di soldati inviati nella regione non è tale da far pensare a un cambiamento dello stato dei fatti attuale”, afferma l’esperto che è anche direttore dell’Istituto per gli studi futuri del mondo islamico (IIWFS). “L’unico rischio è quello di incidenti isolati”. In assenza oggi di un canale di comunicazione  tra i due campi, Guardiani della rivoluzione e soldati americani, che si affiancano ogni giorno in Iraq, in Siria e nelle acque del Golfo Persico, non sono più al riparo di eventuali provocazioni. La decisione di Donald Trump è alquanto sorprendente visto che il miliardario americano in campagna elettorale aveva insistito nel “mettere fine alle guerre infinite” nel Mondo, e di passare dalle parole ai fatti iniziando nel Dicembre scorso il ritiro delle truppe americane dalla Siria e dall’Afghanistan. Una strategia che aveva pubblicamente respinto il generale Kenneth McKenzie, comandante del Centcom. “Non abbiamo gli effettivi sufficienti per essere dove vorremmo essere in numero adeguato, sempre e ovunque”, aveva sottolineato durante una conferenza poco tempo fa.

La retromarcia americana sembra essere stata motivata dalla rivelazione, lo scorso 3 Maggio, di “nuove informazioni inquietanti” che segnalavano un aggravamento della minaccia iraniana, soprattutto “attacchi imminenti” contro gli interessi e i soldati americani in Medio Oriente. Secondo il New York Times , questo rapporto, che include intercettazioni telefoniche e immagini satellitari, dimostrerebbe che Teheran avrebbe ordinato alle sue milizie in Iraq di prepararsi ad attaccare le forze americane. Inoltre, le foto ottenute dagli americani mostrerebbero che i Guardiani della rivoluzione, l’esercito di elite dell’Iran, avrebbero caricato dei missili a bordo dei sambuchi che veleggiano nel Golfo Persico per attaccare le imbarcazioni militari e commerciali americane. Questi  nuovi elementi sono stati determinanti nella decisione americana di inviare nel Golfo, il 5 Maggio, la portaerei USS Abraham Lincoln, la nave da guerra Arlington, uno squadrone di bombardieri B-52, così come una batteria di missili Patriot. Ora, una settimana dopo, due attacchi hanno preso di mira l’Arabia saudita, principale alleato arabo degli Stati Uniti e spietato avversario  della Repubblica islamica di Iran. Il 12 Maggio, Riyad ha denunciato, con tanto di foto come testimonianza, “atti di sabotaggio” contro 4 navi, tra le quali 3 petroliere (due saudite e una norvegese), al largo del porto emiratino di Fujairah. Se i danni si sono rivelati minimi e gli attacchi non sono stati rivendicati, i dubbi si sono diretti su Teheran, sospettata di aver voluto inviare un “messaggio” a Washington.

Due giorni dopo, il regno Al Saud ha annunciato che due stazioni di pompaggio di un grande oleodotto che collega l’est all’ovest del Paese, erano state danneggiate dopo essere state prese di mira da sette “droni armati”. Questa volta le rivendicazioni sono arrivate da parte di ribelli yemeniti houti, appoggiati dall’Iran, che l’Arabia Saudita accusa essere il mandante dell’attacco. Subito dopo e per la prima volta, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ritenuto “piuttosto probabile che l’Iran fosse dietro” a questi sabotaggi. Considerato come un falco, e da molto tempo in opposizione con la Repubblica islamica d’Iran, il capo della diplomazia americana ha dichiarato aver formulato le sue accuse in base “alla forma di questi attacchi”, e in base “a tutti i conflitti regionali dell’ultimo decennio”. Questa improvvisa recrudescenza delle tensioni in Medio oriente ha suscitato numerose interrogazioni presso il Congresso, ricordando alcuni senatori democratici le “bugie” sulle armi di distruzione di massa che hanno spinto gli americani ad intervenire in Iraq nel 2003. Per togliere loro qualsiasi dubbio, il Segretario alla Difesa e il Segretario di Stato hanno immediatamente organizzato una riunione a porte chiuse con i parlamentari americani. “Si tratta di fare opera di dissuasione alla guerra”, ha assicurato, all’uscita dell’incontro, il capo del Pentagono Patrick Shanahan, precisando che le disposizioni prese da Washington avevano permesso di “evitare degli attacchi” contro “le forze americane” nella regione.

In effetti, secondo il New York Times, i Guardiani della rivoluzione avrebbero ritirato la settimana scorsa diversi missili dai loro sambuchi i segno di distensione. Tuttavia, i grandi capi americani non  hanno rivelato ai senatori i famosi “nuovi elementi preoccupanti” all’origine delle tensioni attuali. Secondo i responsabili militari americani, citati sopra dall’AFP, il Pentagono subirebbe in realtà le conseguenze della politica di “massima pressione” portata avanti da Donald Trump nei confronti dell’Iran. Dopo il ritiro unilaterale americano dall’accordo sul nucleare iraniano nel Maggio 2018, tuttavia concluso con altre 5 “grandi potenze” (Cina, Russia, Francia, Regno Unito e Germania), il Presidente americano ha lanciato due tornate di drastiche sanzioni contro il sistema bancario e il petrolio iraniano rispettivamente nell’Agosto e nel Novembre del 2018. Lo scorso 8 Aprile, l’inquilino della Casa Bianca è andato ancora più lontano definendo “organizzazione terroristica” i Guardiani della rivoluzione, una primizia per un corpo armato appartenente ad un Stato. “E’ in seguito al ritiro americano dall’accordo sul nucleare e alle minacce degli Stati Uniti che l’Iran ha rialzato il livello d’allerta delle sue forze di sicurezza”, afferma il Professor Hamzeh Safavi. “D’altra parte l’Iran non ha altra scelta”, puntualizza Safavi. Lo scorso 8 Maggio, Teheran ha annunciato che avrebbe rinunciato a limitare le sue riserve di uranio arricchito, come si era impegnata a fare in virtù dell’accordo sul nucleare.

Casualità del calendario, lo stesso giorno, l’Amministrazione Trump ha informato il Congresso che aveva autorizzato la conclusione di nuovi contratti di approvvigionamento di armi con l’Arabia Saudita e con gli Emirati Arabi, superando il blocco dei parlamentari americani che avrebbero votato contro per via del loro probabile utilizzo nella disastrosa guerra con lo Yemen. A sentire il Segretario di Stato, Mike Pompeo, queste armi, dal valore di 8,1 miliardi di dollari  andranno a “rafforzare la stabilità in Medio Oriente e aiuteranno queste nazioni a fare opera di dissuasione e a difendersi dalla Repubblica islamica d’Iran”. I “guerrafondai” di Washington pare che siano riusciti a farsi sentire. Per ora.

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