I guai di Trump
Non vi è alcun segno che l’offensiva dei democratici contro Trump rallenti. L’ombra di una possibile richiesta di impeachment per l’affare ucraino continua ad allungarsi e almeno tre Commissioni del Congresso, a presidenza e maggioranza democratiche, stanno muovendosi attivamente.
L’affare ha una base indiscutibile: la stessa trascrizione della conversazione del luglio scorso tra Trump e il nuovo Presidente ucraino, Zelenskij, rilasciata dalla Casa Bianca, prova che il Presidente Usa chiese all’ucraino il favore di promuovere un’indagine intesa a coinvolgere il figlio di Joe Biden, ex Vicepresidente di Obama e serio concorrente alla presidenza degli Stati Uniti, in un affare di corruzione, facendo capire che ciò in qualche modo condizionava l’aiuto militare americano all’Ucraina (circa mezzo miliardo di dollari) che era in sospeso. In realtà, Zelenskij non pare aver dato seguito alla richiesta e ha rilasciato in proposito dichiarazioni quanto meno imbarazzate, rimandando alla competenza eventuale del potere giudiziario. L’aiuto militare è stato comunque sbloccato in settembre (conoscendo un po’ gli USA, penso che le pressioni dei militari e dell’intelligence siano state determinanti).
Nel frattempo, è risultato che l’avvocato personale di Trump, Rudy Giuliani, aveva incontrato quattro volte nei mesi precedenti le autorità giudiziarie ucraine, in particolare il Procuratore Generale, che poi Zelenskij ha rimosso, e l’inviato speciale americano a Kiev, Volker, che è risultato aver organizzato questi incontri, ha dovuto dimettersi. Nel frattempo, un agente della CIA tuttora non identificato ha denunciato l’azione di Trump come una minaccia alla sicurezza nazionale e rivelato i tentativi che la Casa Bianca avrebbe messo in opera per occultare il testo della conversazione di luglio.
Nelle prossime settimane, le Commissioni del Congresso sentiranno le testimonianze di Volker, di Giuliani e forse lo stesso Segretario di Stato, Mike Pompeo. Tra i democratici la voglia di dar corso all’impeachment si sta allargando, per cui qualcuno prevede che la richiesta avrebbe oggi la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti. Qualche voce repubblicana viene unendosi alle critiche per Trump (anche da parte di ex suoi collaboratori), ma non abbastanza da far prevedere, allo stato degli atti, una maggioranza nel Senato.
Trump si sente in pericolo. Lo dimostra il modo scomposto e violento con cui, secondo le sue abitudini, reagisce insultando oppositori, stampa etc. È arrivato sino ad auspicare la condanna “per alto tradimento” del Presidente della Commissione sull’Intelligence, il democratico Adam Schiff, sollevando un’ondata di indignate proteste.
L’affare non è semplice e va anche al di là dell’evidente improprietà di chiedere aiuto a un governante straniero contro un rivale interno. Vi si intrecciano anche serie questioni di politica estera, perché è difficile svincolare i rapporti con l’Ucraina da quelli con la Russia, sui quali si appunta da tempo l’attenzione dell’establishment dii Washington (repubblicani compresi) che continua a guardare a Mosca come al vero avversario e non condonerebbe nessun tipo di condizionamento dell’appoggio a Kiev.
E in materia di politica estera, su Trump è caduta un’altra tegola. L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jack Bolton, che il Presidente ha licenziato alcune settimane fa, accusandolo di essere “guerrafondaio”, in una recente dichiarazione ha apertamente e duramente condannato la politica del Presidente verso la Corea del Nord, sostenendo che essa non impedirà a Pyongyang di sviluppare il proprio arsenale nucleare, anzi ipotizzando che il paese già ne disponga, e che quindi il riavvicinamento personale con Kim Jong-un avrebbe messo in pericolo la sicurezza americana. Non so quanto peso abbia la posizione di Bolton. Certo è che costituisce una smentita – questa volta dall’estrema destra, dove normalmente poggia le sue basi Trump – a uno dei (pochi) successi vantati dal Presidente USA in politica estera.
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