La tragicommedia della Brexit
Raramente, forse mai, nella mia lunga esperienza diplomatica, ho visto una questione internazionale ingarbugliarsi – fino a diventare una vera e propria tragicommedia – come nel caso della Brexit.
La faccenda si è complicata ancora con l’avvento di Boris Johnson, che all’autoritarismo più sfacciato unisce una grande dose di pasticcioneria. Grosso modo, la sua linea era: posso ottenere un nuovo accordo dall’UE entro il 31 ottobre ma, con accordo o no, a quella data la Gran Bretagna uscirà dall’Unione. E per non avere tra i piedi l’impedimento di un Parlamento diviso e indocile, ha cercato di sospenderlo, atto che la Corte Suprema ha dichiarato illegale. Intanto, il Parlamento, con il concorso anche di vari conservatori ribelli, ha votato il “Benn act”, una legge che obbliga il Governo, se un accordo non è stato trovato (e votato) entro il 17 ottobre (data a cui si riunisce un Consiglio Europeo), a chiedere un nuovo rinvio dell’uscita fino al 31 gennaio 2020. E qui comincia la commedia: in un discorso al Congresso dei conservatori, Johnson ha dichiarato fieramente che il 31 ottobre la Brexit si farà “accada quello che accada”, cioè ha anticipato che non rispetterà la legge. Ma di fronte a un tribunale scozzese investito del problema, il governo – in un documento che si è cercato di mantenere segreto – ha riconosciuto che il Primo Ministro è tenuto a rispettarla. Allora?
Nel frattempo, Londra ha presentato a Bruxelles una nuova proposta (è un documento di 46 pagine, di cui solo 7 sono state rese pubbliche), diretta a superare il problema irlandese accantonando il backstop. Non è possibile giudicare la bontà e l’accettabilità della proposta, piena di tecnicismi. Per ora, il gruppo Brexit del Parlamento Europeo e il Primo Ministro irlandese l’hanno giudicata “neppure remotamente accettabile”. I portavoce dell’UE si sono mostrati scettici, ma non hanno escluso che il negoziato possa continuare. I colloqui dovrebbero riprendere domani e lo stesso giorno il Presidente del Tribunale scozzese dovrebbe pronunciarsi sulle conseguenze per Johnson di una inapplicazione della Legge Benn (si parla persino di dimissioni o arresto, ma mi pare esagerato).
Johnson, in sostanza, sta giocando un gioco spericolato e in mala fede, non gli importa nulla di un’uscita senza accordo, malgrado le sue gravi conseguenze economiche, l’occhio a ormai solo alle elezioni politiche che sono nell’aria e che il Primo Ministro conta di vincere come l’uomo che, male o bene, ha tenuto fede all’impegno di uscire dall’UE derivante dal referendum popolare. Bassa politica, dunque, cattiva politica. Ma la strada, anche per un bulletto alla Johnson, non sarà liscia: il Parlamento lo ha smentito già più volte (tra l’altro rifiutando nuove elezioni). La tolleranza europea, pur basata su un ragionevole desiderio di un divorzio con accordo, ha seri limiti. Impossibile predire quello che succederà nelle prossime settimane.
Mi ha però colpito una dichiarazione del Primo Ministro irlandese, Varadkar, il quale ha detto: “tutti i sondaggi mostrano che ora la maggioranza degli inglese vuole restare in Europa, ma non riesce a esprimere la sua voce e il sistema politico glielo impedisce”. Giuste ma tristi parole quando si parla non di una repubblica delle banane ma della più antica democrazia del mondo.
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