L’impeachment
Con decisione a maggioranza, la Camera dei Deputati americana ha messo in stato d’accusa il Presidente Trump per due capi d’imputazione: abuso di potere (per aver fatto pressioni sull’Ucraina per l’apertura di una indagine a carico di Joe Biden) e per ostruzione di giustizia rispetto al Congresso. Il voto è avvenuto su linee strettamente partitiche. Solo i Democratici hanno votato a favore, tutti i Repubblicani compattamente contro.
Ora il giudizio passa al Senato, dove i Repubblicani hanno la maggioranza ed è del tutto improbabile che si raggiungano i due terzi necessari alla condanna. Potremmo quindi chiederci perché i Democratici abbiano scelto la messa in stato d’accusa, sapendo che non sarà accolta. Per vari mesi, la leader del partito, Nancy Pelosi, si era detta contraria; ha detto di essere stata costretta a cambiare idea di fronte alle rivelazioni relative all’Ucraina. La scelta, alla fine, è politica. Trump ha difatti compiuto un atto grave, che si aggiunge a tanti altri dai quali è riuscito finora a sfuggire. II Democratici non si sentono però sicuri di poterlo attaccare sul piano delle politiche economiche o per violazioni di regole etiche non facili da dimostrare. Hanno scelto un ruolo: quello di difensori della Democrazia e della Costituzione, sperando che l’opinione pubblica li segua.
Il processo inizia al Senato il 6 gennaio. È abbastanza prevedibile che finirà con l’assoluzione. Tutto da misurare resterà invece l’impatto sulle elezioni presidenziali del prossimo anno per le quali Trump, con un’economia e un’occupazione in ottimo stato, resta comunque il favorito.
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