Il diritto alla diseguaglianza
L’articolo 3 della nostra Costituzione, promulgata al termine di un periodo contraddistinto da non poche discriminazioni, sancisce il diritto all’eguaglianza di tutti i cittadini. La formula utilizzata è, nella sua apparente semplicità, il frutto di una elaborata costruzione, cui hanno partecipato non certo gli attuali legislatori – quelli non in grado di scrivere norme compatibili con la carta Costituzionale – ma giuristi del calibro di Aldo Moro e filosofi come Benedetto Croce.
L’articolo 3 stabilisce che ogni cittadino è uguale davanti alla legge; eguaglianza come principio sacrosanto ed indiscutibile che, abbinato a libertà e fratellanza, richiama i principi della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo. E’ sopravvissuto a regimi dittatoriali ed è un caposaldo di ogni regime democratico. Nessuna discriminazione o forma di diseguaglianza devono essere tollerate a causa di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche.
Adesso però rileggiamo un brano del Decameron, in cui Boccaccio, con non poca acume, dopo aver preso atto che tutti sono creati, con “iguali potenzie e virtù” ci ricorda che “La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse”. In una condizione di base di eguaglianza, saranno quindi le virtù a distinguere gli uomini. E queste virtù potrebbero addirittura portare a situazioni di profonda diseguaglianza. Non dimentichiamo che è la stessa Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 che sancisce la diseguaglianza quando, dopo aver statuito che gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti, prevede che le distinzioni sociali possono essere fondate sull’utilità comune. Uguali nel diritto e davanti alla legge, ma necessariamente diversi nell’esplicazione della propria personalità e nel modo di farlo. Possiamo dire che è lo stesso concetto previsto nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, quando si parla di diritto al perseguimento della felicità, e non di diritto alla felicità. La precisazione non ha una valenza solo linguistica.
Il concetto di eguaglianza, specialmente da Marx in poi, è stato decisamente distorto e, dopo i movimenti del 1968, portato a livelli di esasperazione, facendo passare in secondo piano il fallimento dell’egalitarismo imposto in Unione Sovietica e Cina, ma anche di come l’eguaglianza davanti alla legge, nei diritti e nei mezzi riconosciuti, non dovrebbe tramutarsi all’imposizione di schemi che, necessariamente, la livellavano verso il basso per tutti.
Nella civiltà occidentale il diritto all’eguaglianza è stato portato a forzature estreme al punto di essere usato come strumento di lotta verso ogni forma di differenza, specialmente verso l’alto. Esempio fin troppo citato, ma decisamente calzante, quello dell’egalitarismo sessantottesco nelle scuole dove si è confuso il diritto allo studio, che a tutti era riconosciuto, con il diritto ad un pezzo di carta uguale per tutti. La teoria del Sei politico, decisamente esagerata nei racconti, ma reale in un periodo storico, ne è la dimostrazione. Ed è, né più né meno, quanto possiamo vedere oggi, quando viene contestato dalle moltitudini il sapere, visto come una forma di diseguaglianza da abbattere in forza di un egalitarismo culturale rivendicato specialmente da masse di analfabeti funzionali. La diseguaglianza è stata strumentalizzata e definita, ad arte, privilegio e, come tale, nemico da combattere.
Eguaglianza sì, come principio di base, davanti alla Legge, ma eguaglianza assolutamente no quando si parla di meriti o, per dirla con Boccaccio, virtù. Si tratta molto più semplicemente del riconoscimento del merito e di un sistema meritocratico. E’ un concetto enunciato per la prima volta nel 1958 dal sociologo britannico Michael Young che voleva darne una connotazione negativa sostenendo come una rigida applicazione della meritocrazia avrebbe condotto a una più marcata diseguaglianza sociale. Ma il termine è stato usato in una accezione più corretta e se ne parla oggi in un senso positivo, auspicandone l’uso nella selezione della classe politica dopo che sta trovando applicazione nel settore del lavoro privato, in cui il merito è riconosciuto come valore aggiunto.
Ricordiamo comunque che la nostra Repubblica dovrebbe rimuovere gli ostacoli che limitano l’eguaglianza, ma che ciò deve essere finalizzato ad un pieno sviluppo della persona umana, anche nella sua diversità.
La meritocrazia è un elemento che apporterebbe in ogni contesto un plusvalore, ma deve essere ben difesa dal suo grande nemico: un’eguaglianza ad ogni costo che ne tarpa il potenziale. Ed in questo senso, ed in questo contesto, la diseguaglianza è la base anche di ogni sviluppo e progresso. E Aristotele, con non poca perspicacia, rilevava che dare cose uguali a persone non uguali, era una forma di discriminazione.
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