L’ultima insurrezione italiana

E’ passato esattamente mezzo secolo, ed è un episodio di si parla poco; tra il 13 e il 14 luglio del 1970 iniziarono gli scontri e i disordini di Reggio Calabria con barricate in strada, cortei, uno sciopero proclamato dall’unione commercianti. Intervenne l’esercito e dieci mesi dopo terminarono questi moti, iniziati per un motivo che definire campanilistico è un eufemismo. Sei morti, oltre cinquanta feriti e, parlano le cronache, di migliaia di arresti; tutto perché era stata scelta Catanzaro come capoluogo di regione e non Reggio Calabria.

Era stata istituita nel 1970 la Regione Calabria e la scelta del capoluogo era sicuramente importante per le conseguenze anche a livello economico ed occupazionale con la creazione degli uffici amministrativi. La scelta di Catanzaro ovviamente non piacque a Reggio Calabria che, oltre a rivendicare il primato, aveva ottenuto già nel 1969 ampie rassicurazioni di essere la città prescelta. La prima convocazione del consiglio regionale a Catanzaro per il 13 luglio fu la miccia che fece esplodere i disordini. Scontri con la polizia, scioperi, scene di guerriglia urbana. Anni dopo i moti di Reggio vennero definiti da Marcello Veneziani la prima rivolta contro le regioni e l’ultima rivolta del sud. Tra i partiti più attivi l’allora MSI con il ruolo preminente del futuro senatore Ciccio (Francesco) Franco. Il PCI si dissociò e un comizio di Pietro Ingrao venne duramente contestato dalla folla. Cinque anarchici morirono in un incidente d’auto su cui sono stati avanzati più dubbi così come la strage di Gioia Tauro del 22 luglio; un deragliamento sul quale sussistono ancora solo ipotesi.

Pare un paradosso che furono gli stessi reggini a mettere a ferro e fuoco la loro stessa città per ribellarsi contro la scelta di Catanzaro come capoluogo regionale, ma non era solo la rivendicazione di un sigillo o di una semplice formalità amministrativa: l’instaurazione di un capoluogo significava avere un importante ritorno economico e politico per una città che correva il rischio di perdere anche il treno della Regione dopo essere stata tra quelle che meno aveva sentito gli effetti positivi del boom economico. In altri, significava qualche migliaio di nuovi posti di lavoro pubblici, apertura di sedi e uffici per gli assessorati, indotto amministrativo e commerciale oltre ad un connaturato prestigio

L’attenzione dell’opinione pubblica era forse più attratta da altri eventi di cui ancora oggi si parla: dalla strage di Piazza Fontana ai movimenti del 68 che erano sempre vivi. E’ quasi dimenticato che i disordini di Reggio furono una delle cause della caduta del Governo di Mariano Rumor e del successivo governo di un altro democristiano, Emilio Colombo che varò il cosiddetto “Pacchetto Colombo” che, oltre a rinfrescare una serie di provvedimenti per investimenti già previsti e mai realizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno già negli anni ’50 e ’60. Il pacchetto Colombo, però, con un compromesso decisamente all’italiana, inserì una divisione salomonica degli organi istituzionali calabresi, con la Giunta Regionale a Catanzaro ed il Consiglio a Reggio Calabria. Sorge il dubbio anche degli interessi clientelari che dovettero essere soddisfatti e dei costi che ne sono derivati.

Fu una rivolta pilotata? Probabilmente, ma una forte componente spontanea e popolare era presente, diversamente un’intera città non si sarebbe mobilitata e rimasta bloccata per otto mesi. Fu il successivo 18 febbraio 1971 che i carri armati entrarono a Reggio con l’ordine di rimuovere le ultime barricate.

Ciò che emerge è come il localismo e il campanilismo erano tra i fattori di maggior peso e su cui fece molto appiglio, al punto che, come anche oggi vediamo, il populismo rimane una leva importante per dare il via a mobilitazioni e movimenti. Si parlò di nuovi Masanielli e rischi di secessione. Il terreno era sicuramente fertile e, sempre seguendo le valutazioni di Veneziani che ne parlò nel quarantennale, a “Reggio quell’estate si spezzò il legame già sofferto tra Sud e Stato, tra Meridione e Istituzioni, e si acuì il degrado della Calabria successivamente aggravato dai folli insediamenti industriali nella piana di Gioia Tauro e dai loschi errori del ceto politico, con rare eccezioni. Pur nel suo velleitario estremismo, quella rivolta fu l’ultimo atto politico di un popolo che pensava ancora di poter cambiare la realtà con la mobilitazione, gli slogan e le barricate. Poi restarono le clientele, i clan e la defezione.”

E’ un’analisi decisamente dura e che lascerebbe poco spazio a diverse interpretazioni; la destra di Almirante ci mise il proprio cappello sopra, forte anche, probabilmente, dell’uscita di scena del partito comunista, ma come è stato acutamente notato, si trattava di “moti popolari da inquadrare storicamente nell’ambito delle ribellioni meridionaliste con motivazioni essenzialmente legate all’assenza da molti ritenuta colpevole di uno Stato distante e che poteva essere visto come atteggiamento colonialista”. Sono parole tratte da un saggio sui fatti del giornalista Domenico Nunnari, che dovrebbero essere pesate da ogni politico quando si lancia in proclami o manifestazioni di principio che possono dare fuoco a micce che accendono rabbia e risentimento.

E ciò è più vero oggi in cui le masse vivono di qualunquismo e luoghi comuni più di quanto non lo fosse negli anni ’60.

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