Camera di Consiglio

CASSAZIONE: VENDITA MASCHERINE SENZA MARCHIO “CE” NON E’ FRODE IN COMMERCIO – Con una recentissima sentenza dello scorso mese di novembre, la Suprema Corte ha affrontato la vicenda della vendita di mascherine senza il marchio “CE”. Con la pandemia in corso, è fatto ormai noto che la vendita di “mascherine” di qualsiasi tipo è diventata un vero e proprio business, tanto da diventare addirittura un accessorio di moda.

In particolare, due imprenditori ricorrevano avanti alla Suprema Corte contro il sequestro convalidato nel maggio scorso dal PM e dal Gip del Tribunale di Genova: si trattava di ben 26.000 mascherine. Il capo di imputazione è il reato di cui all’art. 515 c.p. (frode in commercio): Nel provvedimento di sequestro il Primo Giudice aveva qualificato come “chirurgiche” le mascherine di cui sopra, per poi dedurne la contraffazione, poiché prive del marchio “CE” obbligatorio. In realtà si trattava di “mascherine di comunità”, non chirurgiche, né etichettate come dispositivo di protezione individuale (dette anche “copri bocca”).

La differenza tra le mascherine “chirurgiche” da quelle di “comunità” (basti pensare a quelle lavabili, che si trovano in commercio spesso marchiate), si ricava dalla lettura di quanto stabilito dal Ministero dalle Salute. Secondo quest’ultimo, infatti, le mascherine chirurgiche sono le mascherine a uso medico, “sviluppate per essere utilizzate in ambiente sanitario e certificate in base alla loro capacità di filtraggio. Rispondono alle caratteristiche richieste dalla norma UNI EN ISO 14683-2019”: la loro principale funzione è quella di impedire la trasmissione del virus. E queste sono da ritenersi le mascherine che debbono avere il marchio “CE”.

Le seconde, invece, hanno soltanto lo scopo di ridurre la circolazione del virus nella vita quotidiana e non sono soggette a particolari certificazioni: non vanno considerate dispositivi medici, né di protezione individuale.

Su questo si basava la difesa dei ricorrenti: il Primo Giudice aveva erroneamente qualificato le mascherine oggetto di sequestro come “chirurgiche”, mentre queste ultime non venivano vendute come dispositivi medicali, né tantomeno come dispositivi di protezione individuale. Si era, di fatto, di fronte ad una vendita di “mascherine di comunità”, oramai prassi diffusa.

Pertanto, alla lue del fatto che l’art. 515 c.p. sanziona la condotta di chi, nell’esercizio di un’attività commerciale consegna all’acquirente una cosa mobile diversa da quella dichiarata o pattuita per origine, provenienza, qualità o quantità, non si poteva rinvenire, nel caso di specie, tale condotta da parte degli imprenditori.

Secondo la Cassazione, infatti, il Tribunale era incorso in una vera e propria “petizione di principio”, ossia in un ragionamento fallace, essendo incorso in un vero e proprio errore di diritto, non avendo fornito elementi a prova del fatto che i ricorrenti avessero messo in commercio dei beni diversi da quelli dichiarati. A riprova di ciò, le mascherine in oggetto erano state vendute in un negozio di ferramenta, e non di certo in una farmacia o in un negozio di prodotti sanitari.

Attenzione, in ogni caso, alla differenza tra i veri dispositivi medici e quelli di comunità.

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