Anniversari sottotono, la dissoluzione dell’URSS

Il 7 febbraio 1990, esattamente trentuno anni fa, raccogliendo le raccomandazioni di Michail Gorbačëv il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, l’organo di governo dell’URSS, accettava di cedere il monopolio del potere dando così il via alla disgregazione della superpotenza protagonista del ventesimo secolo e anche, contemporaneamente, alla fine della Guerra Fredda con gli Stati Uniti. Il termine Guerra Fredda venne utilizzato per la prima volta da George Orwell in un articolo del 1945 sul quotidiano britannico Tribune quando descrisse un mondo che viveva sotto la costante minaccia di una guerra nucleare nel quale una nazione era allo stesso tempo invincibile e in costante stato di “guerra fredda” con i propri vicini.

Per tornare ai fatti di quell’anno è difficile, anche a distanza di anni, dire se furono soltanto le politiche del nuovo corso (perestrojka) volute da  Gorbačëv e la trasparenza (glasnost) a dare avvio al tracollo del gigante sovietico o se furono una serie di fattori e circostanze che misero in evidenza come fosse impossibile usare un collante che non fosse quello di un regime duro e autoritario per mantenere uniti popoli che poco avevano a che vedere gli uni con gli altri e  che, anzi, erano portatori di istanze contrapposte. Ad eventi analoghi, anche se in termini e con caratteristiche ben distinte e più tragiche, abbiamo assistito in Jugoslavia. È comunque difficile sostenere che l’elezione nel 1985 di Gorbačëv come successore di Konstantin Chernenko non sia stato in ogni caso il primo passo e in tal senso deve essere ricordato anche la liberazione da parte proprio del nuovo segretario del PCUS del più importante dissidente Andrei Sakharov abbia rappresentato un segnale sottovalutato all’epoca.

Nel frattempo la protesta stava salendo nelle repubbliche baltiche: la Lettonia e l’Estonia premevano in primis per profonde riforme e anche i movimenti per l’indipendenza iniziavano a far sentire le loro voci. Un altro segnale importante si ebbe il 29 novembre 1988, quando finalmente i cittadini sovietici poterono iniziare ad ascoltare le trasmissioni radio straniere e quindi poter accedere a notizie ed informazione che non fossero quelle controllate e censurate dal partito.

Nella primavera del 1989, per la prima volta dal 1917, i cittadini sovietici poterono partecipare ad elezioni democratiche e in numerose repubbliche il Partito Comunista venne sconfitto non solo nelle repubbliche baltiche, ma anche in Armenia e Georgia dove si affermarono partiti e movimenti nazionalisti etnici. Altre elezioni, ad iniziare da quelle in Polonia, dove si affermò Solidarnosc, iniziarono a minare la potenza sovietica nei paesi del cosiddetto blocco comunista e sempre più lontane erano le immagini dei carrarmati sovietici che in Ungheria nel 1956 e a Praga nel 1968 avevano soffocato nel sangue le richieste di libertà e democrazia di popoli e piazze.

La caduta del muro di Berlino nel novembre dello stesso anno fu probabilmente l’ultimo atto non solo di mezzo secolo di contrapposizione tra oriente e occidente, ma anche di un potere che non era nato dalla rivoluzione del 1917 che abbatté lo Zar, bensì dalla successiva guerra civile che vide la vittoria dei bolscevichi. Il 7 febbraio il Comitato Centrale del PCUS si limitò ad una semplice presa d’atto di quanto era avvenuto e l’irreversibilità del processo che, è lecito pensarlo, aveva forse mosso i primi timidi passi già con Krushev, fermato da Breznev o forse dall’elezione di Giovanni Paolo II al soglio di Pietro. Ma è innegabile il peso delle politiche statunitensi e britanniche degli anni ottanta e come le parole di Ronald Reagan “Mr. Gorbačëv tear down this wall!”, abbiano influito sui fatti. Viene da chiedersi come potrebbero essere cambiate le cose se il 21 agosto dell’anno precedente avesse avuto successo il tentativo di colpo di stato organizzato dai leader nostalgici che non appoggiavano la nuova politica sovietica e che vide salire alla ribalta Boris Yeltsin.

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