Quarant’anni fa iniziava l’era Reagan

L’insediamento di Joe Biden come nuovo Presidente degli Stati Uniti avviene esattamente quarant’anni dopo quello di Ronald Reagan, un suo predecessore il cui peso nella storia, non solo quella statunitense sembra essere sottovalutato se non addirittura dimenticato. Ma andando a vedere le classifiche dei presidenti migliori o più amati dagli americani scopriamo che, pur non essendo ai vertici di classifiche dove primeggiano i nomi di Lincoln, Washington e Theodore Roosevelt, non è certo a livelli bassi di gradimento quali quelli di Buchanan, indicato come il responsabile della guerra civile, Nixon di cui si preferisce ricordare il Watergate piuttosto che la fine della guerra in Vietnam. Trump ancora non è stato inserito.

È in ogni caso indubbio che la presidenza Reagan abbia caratterizzato non solo i suoi due mandati ma il suo peso, anche nel decennio successivo è indiscutibile. Il giorno stesso del suo insediamento, il 20 gennaio 1981, terminò la prigionia degli ostaggi americani che da oltre un anno erano nelle mani di sedicenti studenti presso l’ambasciata statunitense a Teheran. Fu solo una coincidenza? Gli accordi per la liberazione furono sottoscritti dall’allora vice segretario di Stato Warren Christopher e il pagamento del riscatto è un dato innegabile, ma viene da chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se fosse stato Reagan a dover gestire la situazione. La sua presidenza, non dimentichiamolo, nonostante i luoghi comuni e le numerose marce della pace antiamericane dell’epoca, in piena Guerra Fredda, è caratterizzata da un numero di missioni militari all’estero estremamente basso e sempre in maniera mirata come l’invasione di Grenada o la missione contro Gheddafi in Libia. Probabilmente la sindrome del Vietnam, un ricordo ancora troppo fresco, scoraggiava l’avvio di operazioni ma Reagan si dimostrò anche oculato quando ritirò le truppe inviate in Medio oriente dopo che un attentato in Libano aveva provocato la morte di oltre 200 marine.

Criticato per lo scandalo Iran-Contras e per la sua politica economica, la “Reaganomics” che provocò aumento del debito pubblico ma anche dell’occupazione, Reagan è anche ricordato per la decisione di licenziare in un colpo solo oltre undicimila controllori di volo che avevano scioperato contravvenendo ad un preciso divieto previsto per la pubblica amministrazione. Decisione sicuramente impopolare, ma coloro che dovevano trattare con lui adesso sapevano quali potevano essere le conseguenze.

Ma è in politica estera che deve essere dato atto di come i suoi mandati coincisero con l’inizio del crollo dell’Unione Sovietica, definita nel corso del suo primo mandato “Impero del male”. Era allora segretario del PCUS Jurij Andropov, succeduto a Leonid Breznev e poco dopo Reagan annunciò piani per il riarmo nucleare. Forse fu dal momento di questo annuncio che la dirigenza sovietica assunse un atteggiamento più morbido nei confronti della superpotenza rivale a causa di problemi anche interni dovuti ai nazionalismi che esplosero definitivamente pochi anni dopo e ad una situazione economica di crisi latente e di scarsità di risorse che Gorbaciov si trovò ad affrontare una volta salito ai vertici del Cremlino.

Resta comunque il peso e l’importanza del famoso discorso a Berlino, quando alla Porta di Brandeburgo invitò Gorbaciov a buttare giù quel muro che da quasi quarant’anni separava non solo le due metà di una città, ma l’intera Europa divisa in due blocchi. Probabilmente le circostanze furono favorevoli a Reagan e il ruolo anche di Margareth Thatcher fu determinante insieme all’elezione di un Papa polacco che squarciò il primo velo nella cortina che divideva il mondo. Resta in ogni caso il ruolo svolto da Reagan in una presidenza non a caso definita “imperiale”.

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