Draghi in Libia
Ha fatto bene Mario Draghi a dedicare alla Libia il suo primo viaggio ufficiale all’estero, fuori dell’Europa con i cui leader i contatti sono frequenti e ormai istituzionalizzati.
Quella che un tempo era la Quarta Sponda, continua a rappresentare per noi un partner importante, sia come principale fornitore di energia che come opportunità di lavoro per le nostre aziende e, purtroppo, come l’origine o la via di transito delle migrazioni dall’Africa. Tutti i nostri governi vi hanno dedicato molta cura, non tutti con successo. Dopo l’eliminazione di Gheddafi, un frutto avvelenato dell’ostinazione chauvinista del Presidente francese Sarkozy, la Libia ha vissuto un lungo e disperato periodo di divisioni e guerra civile che l’hanno lasciata esausta e semidistrutta. Ora è tutto da rifare, e può farsi, a condizione che regga il precario accordo che ha portato a un governo di unione nazionale.
Il nostro ruolo può e deve essere centrale. Conosco abbastanza i libici: ho organizzato il primo incontro tra Aldo Moro e il Ministro degli Esteri di Tripoli a Beirut, dopo l’espulsione dei residenti italiani, incontro che portò a rasserenare la situazione. All’ONU ho avuto contatti frequenti e amichevoli con il Rappresentante libico, Ali Trekki, poi diventato Ministro degli Esteri, in un’epoca in cui Gheddafi era demonizzato dagli americani (contatti tanto amichevoli che Trekki suggerì ad Andreotti, allora Ministro degli Esteri, di mandarmi a Tripoli come Ambasciatore; e io ci sarei andato con un certo gusto delle sfide, ma poi mi fu offerto un posto chiave alla Farnesina). In seguito, come Direttore Generale degli Affari Economici, ho svolto, su richiesta di Andreotti, diventato Presidente del Consiglio, e nell’interesse dell’ENI, una missione segreta – e pienamente riuscita – a Tripoli ai tempi del più stretto embargo contro la Libia: tutto un po’, diciamo, controcorrente, ma in fin dei conti la diplomazia è anche saper raccogliere le sfide e rischiare di fare cose difficili e un poco rischiose, se servono al Paese, anche se questa non era certo la posizione dei timorosi e timorati vertici dorotei della Farnesina di allora.
In tutte queste occasioni, ho constatato nei libici un fondo di simpatia per l’Italia. Il passato coloniale naturalmente pesa, ma in Libia sanno che siamo stati colonizzatori più blandi di altri e che – come spiegò pazientemente Moro al suo collega libico in una lunga e caldissima mattinata beirutina – l’Italia democratica aveva abbandonato ogni velleità coloniale. Cosa che non si può dire di certi paesi europei, tra cui la Francia. Inoltre, i nostri Servizi hanno una lunga pratica del Paese e ne conoscono molti risvolti.
Ma possiamo farcela da soli? Non credo sia possibile né giusto, a meno di assumerci responsabilità e sacrifici politici e militari degni di un grande Paese. Dobbiamo mettere da parte ogni pretesa di esclusività e lavorare in accordo con i nostri partner naturali, Germania e Francia, riconoscendo a ciascuno la sua giusta fetta di influenza. E dobbiamo coinvolgere l’Amministrazione Biden, l’ONU, Bruxelles, ove occorra la NATO. E includere nel gioco l’Egitto, potenza militare confinante, che ha tutto l’interesse a mantenere una Libia stabile e libera da influenze perverse. E se dovessi dare un consiglio al mio vecchio amico Mario Draghi – che non ne ha nessun bisogno – gli direi di non sprecare tempo e sforzi con Putin ed Erdogan: loro giocano uno smaccato gioco di potere, talora in contrasto, talora in accordo tra di loro. Non hanno nessun interesse alla stabilità e al benessere dei libici, né a rispettare le posizioni italiane od occidentali in generale. In quella zona sono i nostri avversari e come tali vanno considerati.
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