The sound of silence e i profeti social

Compie cinquantasei anni in questi giorni una delle canzoni simbolo degli anni Sessanta e capolavoro del genio di Paul Simon: The sound of silence. Il brano raggiunse il successo tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966 e rimase nelle classifiche dei dischi più venduti fino a dopo il 1968, probabilmente aiutato anche dal suo inserimento nella colonna del film “Il laureato” con Dustin Hoffman, un film importante in anni che hanno caratterizzato il secolo scorso.

Chissà se, quando scrisse le parole che cantò insieme ad Art Garfunkel, Paul Simon era consapevole che cinquanta anni dopo il brano può trovare una chiave di lettura moderna, inaspettata all’epoca ma che, probabilmente, rende quel testo di vivida attualità.

Potremmo iniziare a dire che in un’epoca di TV urlata, dove si cerca solo la spettacolarizzazione, la polemica, il dibattito non costruttivo, si sente molto la mancanza del silenzio e della sua voce. Difficile trovare momenti in cui ci si possa isolare, magari in quelle “tenebre mie vecchie amiche” che attraversa il protagonista della canzone.

Ma non è solo questa parte del testo ad essere attuale, quanto il punto in cui, passeggiando nei suoi sogni irrequieti, l’uomo che si ripara dal freddo alzando il colletto della sua giacca, si imbatte in più di diecimila persone che parlano senza dire e sentono senza ascoltare. Non ricorda anche a voi il mondo dei social?

Tutti online per cercare di far sapere al resto della rete che cosa si pensa, che cosa, si è appena mangiato, come sta il bambino e che stiamo per andare ad un matrimonio o che la nostra squadra del cuore ha vinto una partita. Sono davvero “messaggi”?

Prendiamo atto che il mondo è cambiato; bene o male sono valutazioni soggettive, ma abbiamo la certezza che la rivoluzione digitale ha modificato il nostro modo di parlare, di comunicare, di relazionarci. Se in un non lontano passato un pranzo in famiglia era un rito da consumare tra le mura domestiche dove si poteva custodire la propria privacy, oggi è probabilmente la prima occasione per far sapere ad una quantità infinita di sconosciuti con chi condividiamo quei momenti.

Immagini a parte, i più, proprio come i diecimila della canzone, parlano senza dire, quando si lanciano in affermazioni che possono andare da un insulto al politico odiato del momento fino all’esibizione di una pseudo conoscenza di tutte le nozioni comprese in ogni specializzazione universitaria. Non è forse vero che, dopo essere stati tutti allenatori di calcio fino agli anni Novanta, adesso possiamo spacciarci per ingegneri, virologi, giuristi, cuochi e ciò che altro vogliamo.

Dall’altro lato questo popolo di navigatori sente senza ascoltare (o legge senza voler capire); come da più parti è stato già fatto notare, quando si ascolta qualcuno, o si leggono le sue parole, lo si fa per ribattere, controbattere, polemizzare. Ancora una volta il concetto di dibattito costruttivo lascia il passo alla prevaricazione e alla ragione di chi urla più forte che, in questo caso, può addirittura chiudere il discorso bloccando l’account del “nemico”.

Terminiamo questa rivisitazione di un brano che resta un capolavoro riflettendo che, all’epoca, Paul Simon, faceva adorare alla folla un “Dio al neon” e attorno a questa folla la luce formava una scritta che avvertiva di come le parole dei profeti erano scritte sui muri della metropolitana e negli ingressi delle case popolari. Forse, in quegli anni, era possibile imbattersi in qualcuno che davvero scriveva sui muri parole che avevano un significato. Forse non erano propriamente profeti ma avevano qualcosa da dire.

Oggi invece tutti credono di avere qualcosa da dire perché hanno la possibilità di farlo gratuitamente, senza rischi e senza dover rendere conto a nessuno. Il rischio, tuttavia, lo corre chi pensa che quelle possano veramente essere le parole di un profeta.

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