I guai di Boris Johnson

Il premier britannico Boris Johnson non attraversa un buon momento. Alla sua apparizione al Te Deum per la Regina nella Cattedrale di Saint Paul è stato fischiato. E decine di deputati conservatori chiedono che se ne vada, per gli effetti del partygate a Downing Street e per aver mentito su questo al Parlamento, ma anche per l’aumento delle tasse, e di questi una ventina ha già inviato la richiesta scritta. Però per aprire ufficialmente la sfida nel partito, occorrono almeno 54 firme. Il Guardian, e la stampa di opposizione, sostengono che questa cifra sta per essere raggiunta, ma per ora non è certo. Molti deputati del “rank and file” eletti in circoscrizioni ove non hanno maggioranze garantite, vorrebbero liberarsi del Primo Ministro, ma si trattengono per timore di rappresaglie.

Personalmente ritengo che il timore finirà col prevalere, e se anche si arrivasse a una sfida aperta, Johnson la vincerebbe, perché a molti conservatori preoccuperebbe dividere il partito a non molta distanza dalle elezioni del prossimo anno. Pesa anche la difficoltà di cambiare guida in una fase di crisi causata dalla guerra in Ucraina. In questa, Boris Johnson ha assunto una posizione di punta, assai più bellicosa e militante di quella europea, e persino di quella americana. Ha inviato armi di primo livello a Kiev, l’intelligence britannica aiuta gli ucraini quanto quella USA, ha dato garanzie a Svezia e Finlandia e così via. II motivi sono vari e certo non solo interni: Johnson vuole marcare il ritorno della GB come protagonista e potenza globale dopo Brexit, segnare le differenze con Francia e Germania, ritenute più tiepide, consolidare la relazione speciale con Washington, dove una Amministrazione democratica non è, per definizione, troppo favorevole a un regime di destra. E forse, ma qui siamo sul terreno della psicologia, a Boris Johnson non dispiace reincarnare un po’ Churchill e la sua battaglia contro le tirannie.

C’è poi anche un intento segreto, che è quello di stabilire un asse privilegiato con alcuni membri dell’UE, come Polonia e Baltici, e quindi cercare di dividere l’UE dall’interno, Se questo scriteriato disegno è vero, non penso però che possa riuscire, perché quei paesi hanno troppo bisogno del sostegno economico dell’Europa per lasciarsi sedurre dal flautista britannico, che di ambizioni ne ha molte, e smisurate quanto il su “ego”, ma di soldi da dare ne ha in realtà pochi. E le seduzioni del “mercato” britannico non possono certo sostituire quelle di un mercato europeo almeno quattro volte maggiore.

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