Realpolitik

Il prossimo viaggio del Presidente americano Joe Biden in Medio Oriente ha una tappa centrale, l’Arabia Saudita. La visita a Ryad non dovrebbe sorprendere, dati i rapporti che uniscono da sempre quel paese agli Stati Uniti e che durante la presidenza Trump si erano ancora più rafforzati. Ma poi c’è stato l’assassinio del giornalista saudita Khashoggi nel Consolato a Istanbul, a cui l’opinione pubblica – specialmente quella “liberal” – ha reagito male, tanto che Biden, durante la campagna elettorale, aveva promesso che avrebbe fatto pagare al regime di Ryad il prezzo delle sue violazioni dei diritti umani.

Ma poi è sopravvenuta l’aggressione russa all’Ucraina, con la conseguente crisi nei rifornimenti energetici, per la quale l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo ridivengono assolutamente centrali per l’Occidente; inoltre, per Biden il regime saudita si è confermato come l’avversario principale dell’Iran e il solo in grado di contenerlo e ha dovuto cambiare idea. Ha per questo pagato un certo costo politico con l’ala sinistra dei Democratici, per cui ha dovuto pubblicamente giustificare la sua decisione. La visita rappresenta un esercizio di realpolitik alla vecchia maniera. Che dimostra quanto sia precario e pericoloso condurre la politica estera sulla base delle simpatie o antipatie ideologiche, anche le più legittime, e dimenticando che nella realtà sono gli interessi concreti a far premio.

Sulla stessa linea di realismo si colloca il tentativo di dialogo con la Cina, condotto in prima persona dal Segretario di Stato Blinken. Washington ha capito alla fine che neppure un paese poderoso come gli USA, e l’insieme dei suoi alleati, possono affrontare troppi nemici su troppi fronti ma devono selezionare in qualche modo il nemico del momento e concentrarsi su di lui. Il nemico dell’Occidente e della Comunità internazionale in generale è il criminale Putin, con la sua banda di barbari. Contro quel nemico l’Occidente deve concentrare le sue batterie, anche accettando alleati sgradevoli. Successe al tempo dell’invasione irachena del Kuwait, e si formò una coalizione abbastanza disparata che includeva anche paesi come la Siria e l’Egitto. Tanto più questo è necessario oggi, stante la ben maggiore gravità del pericolo e perché il mondo, che ci piaccia o no, è in molto di meno “unipolare”.

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