Cronache dai Palazzi
CORTE COSTITUZIONALE: AUTONOMIA DIFFERENZIATA DA RIPENSARE – Il giudizio espresso dalla Corte costituzionale sull’Autonomia regionale differenziata non è una bocciatura totale ma la Corte ha dichiarato illegittima una parte consistente della legge. La Consulta ha rimandato al Parlamento diversi elementi con il compito di ripensare vari aspetti, tra cui la possibilità di un referendum. In sostanza spetterà alle Camere colmare eventuali vuoti che riguardano i punti essenziali della riforma ma i tempi non sono brevi. Il referendum, inoltre, dividerebbe il Paese e una eventuale bocciatura della riforma comprometterebbe la tenuta della maggioranza.
L’esecutivo dovrà a sua volta stilare un decreto legge ordinario che tenga conto dei punti controversi della legge, per poi trasferire il decreto legge al Parlamento proprio come deciso dalla Consulta. La riforma deve favorire i cittadini e non i partiti, è stato l’ammonimento della Corte.
Forza Italia, nello specifico, intende mettere in evidenza come “il rilievo della Consulta va nella direzione già indicata da Forza Italia, che ha sempre sottolineato l’importanza di mettere in sicurezza e definire i Lep”, pur rilevando che “il percorso della riforma non si arresta, ma prosegue nella riflessione parlamentare sugli equilibri dei livelli essenziali di prestazione che vanno garantiti”. La Lega sottolinea che “l’Autonomia ha superato l’esame di costituzionalità, ed è un’ottima notizia”. I leghisti puntano sul fatto che “i rilievi saranno facilmente superati dal Parlamento”. Il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, parla di “passaggio storico” ribadendo che è stata “confermata la legittimità della legge” in quanto il percorso “è in linea con la Costituzione”.
Le forze di opposizione, invece, non risparmiamo le critiche. Per la segretaria dem Elly Schlein “bastava leggere meglio la Costituzione per evitare l’ennesimo flop con una legge che ha dei profili di incostituzionalità”, mentre per Giuseppe Conte (M5S) “la Corte costituzionale frena il progetto di autonomia con cui Meloni, Salvini e Tajani volevano fare a pezzi il tricolore e la nostra unità”. La sentenza della Consulta “ha demolito la legge, la prima conclusione è che il governo non potrà ciò che voleva”, ammonisce Carlo Calenda.
“Finisce malissimo lo ‘Spacca Italia’ fatto a pezzi dalla Consulta”, dice invece Nicola Fratoianni (Avs) e aggiunge: “Una legge antidemocratica e pericolosa voluta a tutti i costi dalla destra”. Angelo Bonelli rafforza la visione catastrofica e parla di “demolizione della legge Calderoli e stop del mercimonio politico tra Meloni e Salvini, che scambiano il premierato con l’Autonomia. L’Italia non è in vendita”. Infine, Riccardo Magi di +Europa chiosa: “Per la riforma è game over”.
Il fulcro delle decisioni della Consulta ruota attorno alla forma dello Stato e alle sue funzioni previste dalla Costituzione del 1948 tenendo ben presenti i seguenti principi cardine: l’unità della Repubblica, la solidarietà, l’eguaglianza dei cittadini e la garanzia dei loro diritti. Ed ancora l’equilibrio di bilancio introdotto successivamente. Radici liberaldemocratiche storiche, radicate nel nostro sistema Paese. Sulla base di tali principi fondanti la legge sull’Autonomia differenziata non ha superato a pieno l’esame della Corte costituzionale, pur essendo insito nella nostra Costituzione il senso del regionalismo ma, per l’appunto, costituzionalmente protetto. La questione non è la spartizione del potere (tra i partiti) bensì di favorire un sistema che sia in grado di garantire dei servizi efficienti a tutti i cittadini.
Ciò che serve è un regionalismo che sia la cartina al tornasole dell’efficienza dello Stato, così come esplicitato dai giudici costituzionali: “La distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”.
A proposito di incostituzionalità sono tre i punti essenziali sollevati dalla Consulta, come emerge chiaramente dal comunicato diramato dal palazzo della Corte. Il primo punto si riferisce alla necessità di mantenere in capo allo Stato centrale il dispiegamento dei servizi e dei diritti da garantire ai cittadini per quanto riguarda le questioni fondamentali. Per questo motivo a proposito di “differenziazioni” territoriali il trasferimento di eventuali poteri alle Regioni non può riguardare “materie o ambiti di materie” bensì “specifiche funzioni legislative e amministrative”. Per fare un esempio, nel campo dell’istruzione agli enti locali potrebbe essere delegata la gestione dei dirigenti e del personale scolastico ma non la strutturazione dei programmi di insegnamento che devono essere uguali per tutti sull’intero territorio nazionale. In definitiva la richiesta di maggiori poteri da parte delle Regioni deve essere motivata e “giustificata” e, soprattutto, fondarsi su motivi concreti. Occorre di certo evitare che la delega avvenga in funzione di accordi e convenzioni politiche. Tutela dei diritti ed efficienza delle erogazioni sono due punti fermi sui quali non transigere. La seconda questione riguarda lo svuotamento delle funzioni del Parlamento. Un Parlamento che la legge sull’Autonomia rischia di sacrificare mentre dovrebbe essere interpellato ad esempio per quanto riguarda la definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire nonostante il trasferimento delle competenze agli organismi regionali. Agli occhi della Consulta appare una delega in bianco “priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”.
La discussione parlamentare è invece fondamentale, dispiegandosi è da essa che devono provenire le indicazioni necessarie per attualizzare una Autonomia differenziata fedele ai principi costituzionali. Il Parlamento deve inoltre avere la possibilità di emendare la legge sull’Autonomia bilanciando il potere tra lo Stato e le Regioni. In sostanza la riforma sull’Autonomia, in cui sono stati individuati dei limiti posti all’azione delle Camere – ad esempio per quanto riguarda il potere di emendare i testi e le modalità di costruzione dei livelli essenziali di prestazione – subirà degli aggiustamenti in virtù delle modifiche messe in evidenza dal potere legislativo. Come mette in chiaro il comunicato della Consulta, infatti, il Parlamento dovrà intervenire per colmare i vuoti provocati dall’incostituzionalità di alcune norme, correggendo quindi i punti essenziali della riforma.
Un’autonomia mal congegnata può aumentare il divario tra le Regioni anziché produrre benefici, in primo luogo per quanto riguarda le risorse disponibili; l’equilibrio del bilancio è infatti il terzo aspetto nevralgico della riforma della quale viene contestato l’aspetto finanziario nella misura in cui rischia di mettere a repentaglio l’equilibrio del bilancio statale, generando scompensi a favore delle Regioni meno virtuose che però rischiano di penalizzare l’efficienza degli apparati decisori. Destinando ad esempio una parte dell’’Irpef alla copertura delle differenze di fabbisogno degli enti locali che non riescono ad autofinanziarsi potrebbe trasformarsi in una norma che favorisce gli sprechi invece che evitarli. Secondo il parere della Consulta, in questo modo si rischierebbe di premiare “le Regioni inefficienti, che dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite, non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”.
Si tratta di salvaguardare i principi fissati dalla Costituzione e, nella pratica dei fatti, il modo concreto con cui si trasferiscono le competenze alle Regioni non deve intaccare la natura dei diritti. I trasferimenti devono essere circoscritti sia sul piano qualitativo sia sul piano quantitativo, ponderati nella giusta misura rispettando i principi fondamentali enunciati costituzionalmente. A tale proposito, riconoscendo “forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi Statuti speciali adottati con legge costituzionale” al Friuli Venezia Giulia, alla Sardegna, alla Sicilia, al Trentino-Alto Adige/Südtirol e alla Valle d’Aosta, nella situazione attuale l’articolo 116, terzo comma, della Carta costituzionale prevede la possibilità di riconoscere “forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a Statuto ordinario”, il cosiddetto “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico” che consentirebbe ad alcune Regioni di dotarsi di competenze e poteri diversi dalle altre, ferme restando le condizioni particolari riconosciute alle Regioni a Statuto speciale (art. 116, primo comma). In definitiva il testo del terzo comma dell’articolo 116 enuncia: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”.
Nella forma attuale della legge, forme rafforzate di autonomia e la loro attribuzione devono far capo ad una “legge rinforzata” che “è formulata sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati”. Sul piano procedurale la suddetta legge “è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti”.
Tali disposizioni sono state introdotte in Costituzione con la riforma del Titolo V, prevista dalla Legge costituzionale n. 3 del 2001, e il procedimento previsto per l’attribuzione di Autonomia differenziata non ha mai trovato completa attuazione.
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