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Generazione copia/incolla

Viviamo in un’epoca in cui tutto è a portata di clic, eppure mai come oggi si legge poco, si scrive male e si pensa ancora peggio. È l’epoca dove prevale una generazione cresciuta con internet in tasca che avrebbe dovuto essere la più informata di sempre, e invece ci ritroviamo con ragazzi che si limitano a copiare e incollare, senza mai elaborare un pensiero proprio. Non si tratta solo di pigrizia, ma di un cambiamento profondo nel modo di apprendere e che porta un terribile effetto collaterale, quello della cosiddetta demenza digitale, di cui parla il neuroscienziato Manfred Spitzer.

Chi è cresciuto con carta e penna, con le enciclopedie e le biblioteche, sa cosa vuol dire cercare un’informazione, capirla, assimilarla. Oggi? Oggi si digita una domanda su Google e si prende per oro colato il primo risultato. Il ragionamento critico? Superfluo. L’approfondimento? Una perdita di tempo. In rete esistono già gruppi di fautori dell’abolizione della scuola in favore dell’insegnamento familiare, libero, tramite Internet. Una degenerazione che, secondo non pochi psicologi, andrebbe ad accrescere il livello di dissociazione e di isolamento in una generazione che, tra le sue malattie, vede prevalere la cosiddetta Hikikimori.

Il problema non è la tecnologia, ma l’uso che ne facciamo. Se un tempo lo sforzo per imparare era parte dell’apprendimento, ora tutto è rapido, immediato, pronto all’uso. E così ci ritroviamo con una generazione che sa tutto e non sa niente, che ha accesso a infinite informazioni ma fatica a metterne insieme due per creare un’idea originale.

Eppure, non è colpa dei ragazzi. Se un bambino cresce con un tablet in mano anziché con un libro, è perché qualcuno gliel’ha messo lì. Se un adolescente trascorre più tempo a scrollare TikTok che a leggere, forse è perché a casa sua un libro non l’ha mai visto aprire. È troppo facile dare la colpa ai giovani e dire che non hanno voglia di imparare. Sono stati educati così: alla velocità, alla gratificazione immediata, alla conoscenza usa e getta. Dallo scrivere temi e imparare a memoria poesie siamo passati alle risposte multiple di quiz e sono state di fatto abolite le bocciature nei primi cicli scolastici a fronte dell’ingresso sul mercato di decine di sedicenti scuole che si vantano di promuovere tutti i loro studenti. Soprassediamo.

C’è poi un altro aspetto che rende tutto ancora più superficiale: il passaggio dal testo al visuale. Prima le immagini, oggi i video. Si è partiti con le foto, perfette per raccontare qualcosa senza troppi sforzi. Poi sono arrivati i video brevi, prima su Snapchat, poi su Instagram, ora su TikTok. Il testo è sempre meno presente, lo sforzo di leggere ridotto al minimo. Guardare è più facile che capire, scorrere è più comodo che riflettere. I giovani non vanno oltre video di pochi secondi, non perché siano pigri, ma perché sono stati abituati così: un’informazione mordi e fuggi, un bombardamento costante di contenuti da consumare in fretta e dimenticare subito dopo. Nessuno approfondisce, nessuno si ferma a chiedersi il perché di ciò che ha appena visto. Il rischio? Che la capacità di analisi e comprensione diventi solo un optional, mentre la soglia di attenzione si accorcia fino a scomparire.

E allora forse bisognerebbe tornare a fare qualcosa che, ormai, sembra un atto rivoluzionario: parlare, discutere, insegnare a ragionare. Non vietare la tecnologia, ma mostrare che la conoscenza non sta in un link copiato su Wikipedia. Far capire che sapere non è solo avere accesso all’informazione, ma saperla mettere in discussione. Leggere, discutere, spiegare perché un argomento sta in piedi e un altro no.

Non c’è bisogno di fare crociate contro smartphone e computer. Basta smettere di usarli come baby-sitter e cominciare a usarli per quello che dovrebbero essere: strumenti. Perché un conto è avere il mondo a portata di mano, un altro è capirlo. E se non insegniamo ai ragazzi la differenza, non stupiamoci se un giorno, al posto di pensare, copieranno e incolleranno anche la loro vita. O già lo fanno?

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