Balle e imposture
Ho già scritto in una precedente nota che ritengo interesse di tutti, non solo dei “moderati”, che Forza Italia non tracolli nelle prossime elezioni europee non ceda al Movimento 5Stelle il secondo posto. O almeno, se questo dovesse avvenire, come alcuni sondaggi pronosticano, che avvenga con un forte riflusso di voti verso la lista di centro – non verso l’astensione o peggio – in modo da fare del centro una quarta forza consistente e autorevole. Non sono stato mai un fanatico del “bipolarismo”, questo preteso toccasana delle democrazie. Osservo che nei Paesi meglio governati e più prosperi, come la Germania, spesso si formano “grandi coalizioni”. Per questo, avevo salutato con entusiasmo la formazione, nella primavera dello scorso anno, del Governo Letta, o delle “larghe intese”. Mi era sembrato da parte del Capo dello Stato un gesto di grande saggezza l’averlo introdotto e da parte di Berlusconi e del PD un atto di responsabilità l’avervi contribuito, superando rancori e conflitti ventennali. Ero – e resto – convinto che, se fosse stato lasciato agire per un tempo sufficiente e fosse stato compattamente sostenuto dalla sua maggioranza, il Governo Letta avrebbe avviato l’Italia verso la ripresa e sciolto poco a poco molti dei nodi che ci affliggono. Perciò ho giudicato a suo tempo imperdonabile la decisione di Berlusconi di far saltare il banco, per ragioni che nulla avevano a che fare con l’azione del Governo e tutto con il suo desiderio di ripicca personale: un errore politico enorme per la stessa FI, che si è tagliata fuori dal governo del Paese, e un gesto di grave irresponsabilità verso gli Italiani, che avrebbe avuto conseguenze drammatiche se la pattuglia del NCD non si fosse prestata a tenere in piedi il Governo del Paese.
Ancora oggi, quali che siano le aspettative sollevate dall’azione di Matteo Renzi, la situazione sarebbe ben diversa se l’esecutivo potesse contare su un ampio appoggio parlamentare e potesse procedere sulla base di un programma concordato tra le maggiori forze politiche. In altre parole, se mettessimo per un po’ da parte il “mantra” del bipolarismo e comprendessimo che, in una fase difficile della sua Storia, un grande Paese va governato al centro, con il consenso più ampio possibile, da forze che rappresentino tutto il ventaglio delle componenti della società. Ma il bipolarismo, tenuto fuori dalla porta dopo le elezioni di febbraio, ha forti probabilità di tornare se passerà la legge elettorale già approvata dalla Camera. Però, se bipolarismo deve essere, sia almeno quello che è normale e fisiologico che sia: basato su due poli, di centro-destra e centro-sinistra, magari con il complemento di una forza di centro che possa fare da equilibratrice. Ma un bipolarismo PD-5 Stelle fa solo rabbrividire. Di che pasta sia fatto quel movimento, lo si vede ogni giorno: gazzarre in Parlamento, insulti a tutti, becero assalto alle istituzioni, proposte rivoluzionarie e molto concreto ostruzionismo a qualsiasi tentativo di riforma. Su tutto, gli urli demenziali del comico genovese. Da ultimo, l’indegna banalizzazione dell’Olocausto.
Per questo, va bene che Berlusconi tenti una rimonta e cerchi di riprendere almeno parte del consenso che gli è sfumato nelle mani. Glielo auguro e lo auguro a tutti gli italiani che non vogliono “morire grillini”. Ma che pena la maniera in cui lo sta facendo! Come leitmotiv della sua campagna elettorale non ha saputo trovare niente di meglio che le vecchie frottole, le vecchie imposture. La sua ricetta per rilanciare l’ecnomia? Stampare più euro, accettare un’inflazione superiore al 3%, sforare il limiti del deficit fissato a Maastricht. Voltare le spalle all’Europa che produce e che cresce, a cominciare da quella Germania che è il nostro maggior partner economico. In una parola: finanza allegra, nuovi debiti, nuove follie, nuove ipoteche sull’avvenire dei nostri figli.
L’ultima impostura è ripetere che l’euro è una moneta straniera “come lo era il dollaro per l’Argentina, che ha provocato la crisi di quel Paese nel 2001”. In quell’anno si dà il caso che ero Ambasciatore a Buenos Aires e sulla crisi ho scritto vari capitoli di un libro che è stato abbastanza citato. Prima balla: il dollaro non è mai stato la moneta ufficiale dell’Argentina. Era – e resta – un valore di riferimento in un Paese afflitto per le politiche pubbliche da un’inflazione endemica, che fa perdere costantemente di valore alla moneta nazionale, obbliga la gente a rifugiarsi in quelle straniere e ha creato l’uso ormai generalizzato e antico di stabilire in dollari il valore dei contratti, specie immobiliari. Nella decade del Presidente Menem, era stata stabilita per legge la parità tra un dollaro e un peso, il che ha assicurato al Paese un periodo di stabilità e di crescita economica senza paragoni, attirando investimenti dall’estero per decine di miliardi di dollari. Ma il dollaro – ripetiamolo – non è mai diventato la moneta d’uso.
Seconda balla: la crisi argentina del 2001 non ha niente a che vedere con l’uso del dollaro; derivò puramente e semplicemente dall’alto e crescente indebitamento del Paese, che si finanziava sui mercati a tassi sempre più proibitivi e a metà del 2001 vide chiudersi tutte le porte del credito internazionale, da quello del FMI a quello dei mercati, americani ed europei (italiani compresi). Ciò porto dapprima ad una disperata politica di drasticii tagli a stipendi e pensioni e blocco dei conti correnti bancari, con ovvie conseguenze recessive, e poi, com’era inevitabile, alla cessazione dei pagamenti. Rifarsi all’esempio argentino è dunque una doppia impostura. Perché la crisi di quel Paese, di per sé ricco di risorse, fu dovuto proprio alla finanza fuori controllo, all’eccesso dei debiti, cioè esattamente a quello che ora Berlusconi propone di fare. E dalla crisi, il Paese uscì con una brutale rinegoziazione del debito pubblico (che solo ai creditori italiani è costato oltre sei miliardi di euro), che ancora adesso gli chiude l’accesso ai mercati finanziari e sarebbe comunque impensabile per l’Italia, date le dimensioni molto maggiori della sua economia (solo Grillo e qualche altro demente la propone).
Ultima notazione. La ricetta argentina per superare la crisi fu: forte stimolo ai consumi attraverso svalutazione della moneta, aumento della spesa pubblica, alto deficit pubblico finanziato con la stampa incontrollata di carta moneta o con il ricorso alle riserve della Banca Centrale. Ma proprio questa ricetta di “stampo berlusconiano”, dopo aver dato qualche respiro al Paese, ha prodotto quello che era ovvio producesse: svalutazione massiccia e a spirale, rincorso tra prezzi e salari, malessere sociale, e alla fine stagnazione. E sta ora obbligando il Governo argentino ad imporre una dura manovra finanziaria: non aumentando le tasse, o diminuendo la spesa pubblica (cose politicamente insostenibili per governi a vocazione populista) ma diminuendo drasticamente il potere d’acquisto dei salari mantenendone l’adeguamento al di sotto dell’inflazione. Ricetta classica, alla fine necessaria, ma socialmente e politicamente letale. Berlusconi non sa che a questo porterebbe la politica che egli propone? O non gli importa (tanto le conseguenze le pagherebbe un governo successivo)?
Ma se queste sono le sue ricette, cosa lo differenzia alla fine da Grillo, che evidentemente cerca di rincorrere sulla strada del populismo? Perché la gente dovrebbe credergli, visto che ripropone le stesse menzogne, le stesse imposture che ci hanno portato alla crisi quasi terminale del 2011? Grillo ha un disegno folle ma coerente: uscire dall’Europa, tornare alla liretta, rinnegare il debito pubblico, mandare a casa le istituzioni, governare con la Rete, cos’altro? Ma Berlusconi, dove pensa davvero di portarci? Davvero i moderati italiani dovrebbero continuare a corrergli appresso? Davvero, nel centrodestra, non ci sono alternative dignitose?
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