Italiani e lavoro, le ragioni di una crisi

Che l’Italia stia attraversando una delle peggiori crisi dal dopoguerra è ormai un dato di fatto. C’è però un settore che è soffocato da una lunga crisi da ormai diversi decenni: il mercato del lavoro. Le condizioni del lavoro in Italia hanno notevolmente aggravato la crisi non permettendo quella ripresa che sta cominciando a palesarsi nei principali motori del Vecchio Continente. Il maggior problema non è da rilevarsi nei livelli occupazionali che negli anni hanno sempre tenuto un trend in linea con la media europea, ma nella difficoltà delle nostre istituzioni ad infrangere una rigidità frutto della rivoluzione culturale di fine anni ’60. Benché lo Statuto dei Lavoratori abbia sancito un traguardo importante in un paese in cui il lavoro era completamente deregolamentizzato, quarant’anni di immobilità e consolidamento dei privilegi, hanno sortito l’effetto opposto.

I problemi però non sono arrivati soltanto nella rigidità del sistema delle regole, ma anche e soprattutto nella poca propensione all’innovazione, al poco stimolo produttivo e al pesante cuneo fiscale posto sul lavoro. In effetti i dati non sono dalla nostra parte: 47,8% è il peso delle tasse (dietro a Germania e Francia), ma con un indice di produttività (dati OCSE) di molti punti inferiore a quello dei principali paesi dell’Unione.

In Europa, a compensare il cuneo fiscale vi è una elevata produttività che consente un efficientamento del sistema superiore rispetto a quello italiano e che compensa la pesantezza delle tasse sul lavoro. Altro dato a favore dell’Europa è il deciso arretramento della sindacalizzazione delle imprese. Nonostante nel resto del continente le relazioni sindacali abbiano avuto uno sviluppo più partecipativo rispetto a quello conflittuale italiano, è un segnale di come i diversi paesi cerchino di ridurre tutti gli ostacoli che possano intralciare il percorso della flessibilità.

Come detto, l’Italia è stretta dalla morsa del suo passato fatto di lotte per lo status quo a difesa di ideologie ormai superate. Negli anni, i governi hanno sempre timidamente messo mano alla riforma del mercato del lavoro senza mai apportare vere e proprie rivoluzioni. Ne è da esempio il Job Act di Renzi, provvedimento ad effetto tampone di scarso impatto strutturale. Ad aggravare la situazione negli anni ci si è messo anche il sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Ancorato a canoni di tempi lontani non ha saputo valorizzare il grande patrimonio artigianale ed imprenditoriale italiano. Così ci troviamo ad avere la metà dei laureati europei ( 20% rispetto al 40% dei principali paesi) e troppi ragazzi senza preparazione professionale. I dati sulle imprese artigiane mostra un fabbisogno di manodopera professionalizzata in controtendenza con quella degli altri settori industriali, indice di una scarsa attenzione da parte delle istituzioni al problema.

Come mostrano molte esperienze nei paesi dell’Unione, la risposta non può essere una mera riduzione del cuneo fiscale, perché, allo stato attuale, per alleggerire il carico sul lavoro è necessario appesantirlo su altro. La risposta vincente deve essere più strutturale: sindacati che comunicano e rinunciano ai privilegi e forti incentivi sulla produttività.

Solo aumentando l’efficienza produttiva sarà possibile sostenere una ripresa che ancora arranca. Lo sforzo deve però essere condiviso, c’è chi cede (i sindacati) e c’è chi osa (il Governo), altrimenti la svendita delle nostre aziende sui mercati internazionali sarà continua ed inarrestabile.

©Futuro Europa®

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