Camera di Consiglio
Non è valida in Italia la sentenza canonica di nullità del matrimonio se la convivenza è durata tre anni – Una recente sentenza della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità o meno di delibare , cioè di rendere efficace per lo Stato italiano, una sentenza del Tribunale ecclesiastico che aveva dichiarato la nullità di un matrimonio, in relazione al cui rapporto i due partner avevano convissuto per molti anni ed a seguito del quale era anche nata una figlia.
Come noto, le sentenza straniere, quali sono quelle canoniche, possono essere delibate nel nostro Stato solo se non sono contrarie all’ordine pubblico interno, per cui la questione da dirimere è se sussista o meno nel nostro ordinamento un principio di ordine pubblico che abbia come proprio contenuto il favor matrimonii, ponendo come elemento caratterizzante la convivenza stabile per un lungo periodo, considerato che da essa si deduce la chiara volontà dei coniugi apparenti di porre in essere quella comunanza di vita tipica del matrimonio, il che porrebbe una prevalenza del matrimonio- rapporto rispetto al matrimonio-atto, dando, quindi, all’effettivo e duraturo svolgimento del rapporto tra le due parti una importanza tale da impedire la pronuncia di nullità.
La Corte ha individuato numerosi elementi nel nostro ordinamento, sia in Costituzione che nella legge ordinaria, nonché nelle carte internazionali dei diritti, che danno effettivo riconoscimento e tutela al matrimonio-rapporto, a condizione che sussista sia la riconoscibilità di esso (nel senso che i terzi possano agevolmente rilevare la esistenza di una vera e propria famiglia nelle modalità di convivenza dei soggetti), sia la sua stabilità (nel senso di un periodo di tempo congruo, a seguito del quale deve intendersi definitivamente accettato dalle parti il rapporto matrimoniale, sia pur viziato nella propria genesi).
Il primo dei detti elementi non necessita di una chiarificazione particolare, infatti esso evidentemente dipende dalla specifica prova sulla percezione da parte dei terzi del rapporto come ordinariamente familiare, per il secondo, invece, la individuazione è più complessa.
I Giudici, facendo tesoro del generale principio dell’analogia secondo il quale “…se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” (art.12 delle “Disposizoni sulla legge in generale”, preliminari al Codice Civile), hanno preso come riferimento la L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 6, comma 1, (Modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonchè al titolo 8 del libro primo del codice civile), secondo il quale: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto” (cfr. anche la stessa L. n. 184 del 1983, art. 29 – bis, comma 1, che richiede per gli adottanti, ai fini dell’adozione internazionale, le medesime condizioni soggettive di cui all’art. 6).
Pertanto, se il termine triennale è ritenuto dalla legge sulle adozioni un periodo congruo per considerare il nucleo sufficientemente consolidato da poter aspirare all’adozione di un minore, uguale termine può essere individuato per determinare quella stabilità necessaria per far considerare definitivamente accettato dalle parti il rapporto familiare con carattere di stabilità.
Concludendo, quindi, se il matrimonio, anche invalido, è durato quanto meno tre anni esso non potrà essere dichiarato nullo a seguito di una sentenza ecclesiastica, che, pertanto, non potrà trovare efficacia nel nostro Paese.
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