NATO e Russia
Il vertice nel Galles a Newport, per le circostanze in cui si è svolto, ha confermato ancora una volta la centralità della NATO, come organo in cui si manifesta e si organizza la solidarietà tra Stati Uniti ed Europa che sentiamo tanto più vitale quanto più le minacce si moltiplicano nel mondo. Il vertice si è infatti svolto in un clima di tensione con la Russia, inedito per la sua gravità dai tempi della Guerra Fredda.
I rapporti NATO-Russia hanno una storia che risale a metà degli anni Novanta. A quel tempo, il punto contenzioso era costituito dalla decisione dell’Alleanza di accogliere nel suo seno i paesi ex socialisti che chiedevano di aderirvi. Eltsin adottò una posizione di dura protesta, che minacciò di riportare i rapporti Est-Ovest al clima della Guerra Fredda. Poi il problema fu risolto con buon senso reciproco. I russi capirono che non potevano opporsi a un processo che dipendeva dalla libera volontà di paesi sovrani, e gli Alleati compresero che la Russia meritava di ricevere alcune garanzie perché l’allargamento della NATO non si trasformasse in un’intollerabile minaccia per la sua sicurezza. In un libro (Servizio di Stato) ho raccontato le fasi più delicate di un negoziato complesso – al quale presi parte come Ambasciatore alla NATO – pilotato dal lato occidentale dal Presidente Clinton e dal Segretario Generale della NATO, Javier Solana e per la Russia da Eltsin e dal suo Ambasciatore a Bruxelles, Vitaly Ciurkin (lo stesso che attualmente rappresenta la Russia all’ONU), un diplomatico di grande esperienza e apertura mentale. Un punto di svolta si ebbe in una riunione riservata nella Rappresentanza italiana – con gli Ambasciatori di Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia ed io stesso per l’Italia – quando Ciurkin finalmente indicò le condizioni che Mosca riteneva indispensabili per accettare l’allargamento. Una di queste consisteva nella creazione di un Consiglio NATO-Russia che doveva personificare la relazione strategica e “privilegiata” tra i due. Una soddisfazione di prestigio, ma anche la possibilità per Mosca di influire sulle posizioni alleate.
L’accordo NATO-Russia fu solennemente firmato a Parigi nel maggio 1997, prima dell’allargamento dell’Alleanza, e Il Consiglio cominciò a funzionare subito e a vari livelli (anche ministeriale). La sua vita non fu sempre facile. Il momento di maggior tensione si ebbe con l’intervento della NATO per il Kossovo, poi le relazioni tornarono a normalizzarsi anche grazie alla mediazione di Berlusconi che sfociò nel vertice di Pratica di Mare del 2002. Fino allo scorso inverno, contrasti di vedute anche acuti tra Occidente e Russia avevano continuato ad esistere, ma alla fine aveva sempre prevalso il reciproco interesse a relazioni normali. È un interesse che ambedue le parti avvertono, o dovrebbero avvertire, con chiarezza: la sicurezza del continente europeo ne dipende, ma anche quella del mondo civile nei confronti della grave minaccia islamica. Poi purtroppo è scoppiata la questione ucraina che ha rimesso tutto in gioco: un fatto non casuale, parte della linea di Putin tesa a ricostituire l’antico impero zarista e sovietico. Cercare di allargare la propria sfera d’influenza non è in sé un delitto. Ma imporla con l’intimidazione militare o il ricatto economico è contrario alle norme internazionali che la Russia ha liberamente sottoscritte. Se si trattasse di regioni asiatiche o comunque periferiche, la NATO avrebbe un interesse solo indiretto, ma l’Ucraina è il più vasto paese europeo, cerniera tra Est e Ovest e la sua posizione strategica è di primaria importanza. L’Alleanza non può dunque guardare dall’altra parte.
Non essendo riuscita a riportare Kiev all’antica dipendenza, la Russia ha puntato a recuperare le zone russofone dell’Ucraina: non solo la Crimea (ormai tornata alla Madre Russia) ma tutto l’Est del Paese. Si scontrano nella vicenda due principi egualmente validi: l’integrità territoriale di un Paese sovrano e il diritto all’autodeterminazione (situazioni del genere esistono altrove, in Scozia, in Catalogna, nei Paesi Baschi) ed è legittimo sostenere l’uno o l’altro. Quello che non è legittimo è che un Paese intervenga con la forza negli affari interni di un altro Paese sovrano.
La NATO non ha l’obbligo di difendere l’Ucraina, che non è membro dell’Alleanza, ma ha il dovere elementare di rassicurare e proteggere i suoi membri più direttamente esposti al ritorno espansivo della Russia, in particolare Polonia, Romania e i piccoli e deboli Paesi baltici. La decisione di dispiegare truppe e armamenti in quelle zone e di costituire una forza di intervento rapido va nella giusta direzione. Di più è difficile fare senza innescare quel meccanismo di reazioni e controreazioni che portò alla Prima Guerra Mondiale.
Per sostenere l’Ucraina, le opzioni per l’Occidente non sono però molte. Esclusa la guerra, si spera, scontata la relativa inefficacia delle misure politiche e diplomatiche, la strada delle sanzioni economiche appare quella obbligata, ma non è esente da costi molto alti e non è sostenibile per troppo tempo senza provocare danni all’economia globale.
Il cammino da percorrere – come è apparso chiaro nel vertice del Galles – è piuttosto stretto, tra la necessaria fermezza e la ricerca del dialogo. Difendere la legalità internazionale ma non rompere irrimediabilmente i rapporti con la Russia sono esigenze di eguale peso e di non facile conciliazione. Ma una soluzione politica della crisi non dovrebbe essere impossibile, se gli uni e gli altri riunciano ai loro obiettivi massimalisti: separatismo da una parte, imposizione della sovranità ucraina con la forza dall’altra. In alcuni casi il separatismo ha causato guerre sanguinose, come nell’ex-Jugoslavia, ma soluzioni civili esistono (l’Alto Adige ne è un ottimo esempio, come lo è stato la separazione tra cechi e slovacchi e di separatismo si discute civilmente in Belgio e in Scozia). Per arrivarci si richiedono ragionevolezza e buon senso e la chiara coscienza che niente è peggio della guerra. E si richiede che Putin si renda conto che, nel mondo di oggi, la grandezza di un paese non si misura in chilometri quadrati ma nella industriosità dei suoi abitanti e nelle forza delle sue istituzioni civili.
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