Grande coalizione e Realpolitik
Davanti agli orrori inflitti dalla jihad islamica in Irak e Siria era apparsa presto manifesta le necessità di una coalizione per fermarla, sul modello di quella formatasi al tempo dell’invasione irachena del Kuwait. L’abbiamo detto su queste colonne, l’ha detto autorevolmente Sergio Romano nel Corriere. Il vertice Nato della scorsa settimana sembra aver alfine portato alla sua nascita. I proclami che l’hanno accompagnata, specie da parte del Presidente Obama, sono stati perentori (Obama si è ripreso, almeno nella retorica, dalle incertezze mostrate all’inizio). È però presto per dire quale ne sarà la composizione finale e come e quando potrà funzionare sul terreno.
Quanto alla composizione, il fatto che dieci Paesi, tra cui l’Italia, vi abbiano aderito, è certamente un fatto positivo. Alcune assenze da parte occidentale ci sono (vedi Spagna, Belgio, Olanda) ma la carenza maggiore riguarda per ora l’assenza di certi Paesi musulmani. Va benissimo che vi partecipi la Turchia, alleato chiave nella NATO e potenza militare regionale, ma non basta. È difficile che l’azione di indebolimento e poi distruzione dello Stato islamico promessa da Obama possa verificarsi senza una forte componente di truppe di terra, che gli Occidentali hanno per ora esclusa, e questo porta automaticamente alla necessità di una partecipazione, non solo della Giordania, ma dell’Egitto e soprattutto della Siria. La questione siriana è molto delicata. Il regime di Assad non piace a nessuno in Occidente, dopo la feroce repressione della rivolta interna. Ma, ci piaccia o no, esso è una pedina essenziale in una partita in cui sono impegnati interessi vitali di sicurezza. La Siria è un paese che conosco abbastanza bene, vi ho compiuto missioni a nome dell’Europa già ai tempi del vecchio Assad. Non è una democrazia, il potere si regge sulla forza delle armi e sulla polizia, ed è in mano a una minoranza religiosa, gli alauiti, che rappresenta il 15% della popolazione ma è per tradizione la parte militarmente preparata e più forte. C’è molta corruzione, la classe di governo ha profittato più di ogni altra dell’espansione economica che pur c’è stata negli ultimi venti anni. Ma è un regime laico, che rifugge dal fanatismo religioso e dall’applicazione cieca della Sharia e mantiene con Israele una difficile pace, e per questo è nella mira di Al-Qaeda e dell’ISIS, che più di ogni altra cosa detestano questo tipo di regime e mirano a distruggerlo. Non è l’ideale, ma in Medio Oriente (e altrove) il più delle volte la scelta non è tra il bene e il male, ma tra il male minore e quello maggiore. Al tempo dell’invasione del Kuwait, si unì alla coalizione voluta da Bush e si batté sul terreno. Allora fu in qualche modo “perdonato” e riammesso nell’ovile occidentale. Obama pare volerlo escludere questa volta, ma la realtà finirà con l’imporsi. Egli stesso sa bene, del resto, che Assad si difendeva, con mano estremamente dura, contro il fanatismo di tipo jihadista e probabilmente per questo fermò sul limite i bombardamenti progettati. Poiché parte del territorio conquistato dall’ISIS è siriano (e là paiono essersi svolti i più feroci episodi di barbarie contro ostaggi occidentali) pensare di poterlo sconfiggere senza la collaborazione di Assad è una pia illusione. Si tratta della tanto deprecata e alle volte tanto necessaria “Realpolitik”.
Altra partecipazione utile sarebbe quella dell’Iran. Teheran ha tutte le ragioni per intervenire a difesa degli sciiti, che sono tra gli obiettivi e le vittime maggiori della furia jihadista. Ne ha i mezzi militari, disponendo di milizie relativamente disciplinate e armate. Capisco però le enormi difficoltà politiche che una collaborazione con l’Iran suscita in Occidente. Si tratta di superare un conflitto che dura da quasi trent’anni e, in più, la ragione del finanziamento e dell’appoggio di alcuni Paesi arabi del Golfo, sulla carte amici dell’Occidente, all’estremismo sunnita sta proprio nell’intento di fermare e controllare la minaccia iraniana. SI può guardare senza timore ad una presenza di truppe iraniane in Irak e Siria? E, d’altra parte, si può continuare a lungo litigando sia con i fanatici sunniti che con i fanatici sciiti? Non si dovrà prima o poi scegliere? Anche qui, “Realpolitik”.
Una questione a parte riguarda la Russia. Va da sé che la sua partecipazione è necessaria, anche se nessuno vuole vedere truppe russe in Medio Oriente. La crisi ucraina per il momento impedisce che se ne parli, almeno pubblicamente. Mi costa però pensare che non sia in corso, o non sia ricercata, una collaborazione a livello dei servizi di intelligence. Abbiamo visto che Putin è entrato fra gli obiettivi delle minacce islamiste per il suo appoggio ad Assad (e, penso, per la sua amicizia con l’Iran, a parte le vecchia storia cecena). Possiamo a lungo andare avanti in ordine sparso? È più importante lo status delle regioni russofone dell’Ucraina o la sicurezza della nostra civiltà di fronte all’assalto islamico?
E infine Israele. È il Paese più direttamente e vitalmente esposto, ma – come avvenne al tempo del Kuwait – è normale rifuggire da un’alleanza aperta, che metterebbe in difficoltà i Paesi arabi potenzialmente “amici”. Ma l’apporto israeliano, specie per quanto riguarda l’intelligence (e non solo), sarebbe prezioso.
Bisognerebbe infine parlare di India e Cina, la prima, soprattutto, sotto la mira dell’estremismo islamico, ma sono Paesi che si muovono in modo spesso difficile da decifrare, per cui una loro collaborazione (specie nel caso cinese) non potrebbe essere che limitata ed ellittica. Sarebbe già molto se la Cina, per esempio, appoggiasse una risoluzione chiara e dura del Consiglio di Sicurezza, che legittimi l’azione della coalizione, e che rinunci a comprare il petrolio iracheno se cadesse in mano al Califfato.
Vedremo che estensione assumerà la coalizione dopo il viaggio di John Kerry nel Medio Oriente. Ma poi, come funzionerà nei fatti? La NATO ha escluso invio di truppe di terra e politicamente era forse la sola decisione possibile. L’Alleanza ha altri e non trascurabili mezzi per agire: addestramento e armamenti alle forze irachene e ai peshmerga, attacchi aerei alle posizioni jihadiste. Basterà? È presto per dirlo. Questa strategia ha un limite evidente: si appoggia sulla efficacia, militare e politica, delle Autorità irachene (e siriane) e dei curdi. Funzionerà? Non ci scommetterei. Ma stiamo a vedere.
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