Cronache dai Palazzi

Il tema del lavoro continua ad essere uno dei focus fondamentali dell’agenda di questo governo, pronto a sfornare (necessariamente) il Jobs act di Renzi al più presto. Il premier esclude “compromessi” di qualsiasi genere  per quanto riguarda il superamento o l’eventuale rivisitazione dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori che per molti del suo partito – la cosiddetta “minoranza” – rappresenta un ‘totem’ da preservare. “Rispetto tutte le idee, anche quelle dei sindacati – avverte Renzi dagli Stati Uniti – ma questo non è il momento del compromesso, è il momento del coraggio”. Non è prevista nessuna trattativa dunque, né con la minoranza del Pd né con la Cgil che propone il reintegro dopo cinque anni. Il sindacato rosso ha già in programma una manifestazione unitaria con la Fiom il 25 ottobre ma la location è ancora da definire, Roma o Bologna.

Il reintegro continua in pratica ad essere lo spartiacque della discussione, e lunedì 29 settembre la direzione dem dovrà comunque decidere: mantenere il reintegro per i lavoratori licenziati oppure eliminarlo. Renzi sembra avere i numeri per averla vinta ma i problemi potrebbero arrivare al Senato dove 40 democratici hanno sottoscritto emendamenti (sette dei 700 totali) in dissenso con la proposta del governo. A Palazzo Madama, inoltre, la maggioranza detiene solo sette voti di vantaggio. Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, non esclude un accordo, magari per evitare i soliti “pasticci all’italiana”. Poletti ammonisce che “non ci può fermare di fronte al tabù dell’articolo 18” e a proposito di Jobs act afferma: “C’è bisogno di idee semplici, di fiducia e chiarezza perché ci siano investimenti”.

I sette emendamenti presentati dalla minoranza dem rappresentano comunque uno strappo tra governo e democratici, anche se molto probabilmente alla fine si affermerà una “soluzione unitaria e di buon senso”, come auspicato da Cuperlo, il quale propone di discutere degli anni di prova del contratto a tutele crescenti a patto però che un lavoratore licenziato possa aspirare al reintegro.

Allargando lo sguardo alle altre forze politiche, Mario Mauro, presidente dei Popolari per l’Italia, afferma che “quella del contratto a tutele crescenti è la strada giusta per aiutare l’evoluzione del mercato del lavoro e per sostenere il futuro dei nostri giovani, ma come ogni provvedimento va considerato non solo per i titoli ma anche per ciò che propone nel merito”. In sostanza Mauro auspica il reale “superamento” di “tipologie contrattuali che in modo clamoroso, per esempio le false partite iva, producono precariato invece che flessibilità”. L’articolo 18, infine, “è chiaro che nel quadro descritto è da ritenersi superato per chi inizia oggi un rapporto di lavoro”.

Tornando in casa dem, Bersani auspica comunque “una sintesi” che il segretario Renzi dovrebbe favorire. “Basta volerlo”, ammonisce Bersani. “Noi una rottura non la vogliamo ma andremo avanti fino in fondo – dichiara invece Rosy Bindi -. Sul reintegro non si torna indietro”. D’Attorre di area riformista chiede inoltre che il premier incontri la minoranza del suo partito mettendo all’ordine del giorno anche la legge di Stabilità: “Lavoriamo con determinazione a un accordo, per evitare un redde rationem in streaming”. Con la prossima legge di Stabilità la sinistra Pd mira, in sostanza, allo stanziamento di risorse finalizzate all’universalizzazione di diritti e tutele per i precari tutt’oggi esclusi dal sistema del welfare. Non ottimista infine Damiano, appartenente alla minoranza dem e presidente della Commissione Lavoro alla Camera, che afferma: “Noi vogliamo l’accordo e siamo pronti a discutere di un periodo di prova anche più lungo di tre anni per il contratto a tutele crescenti. Però dal governo io non vedo aperture”.

Il premier Renzi continua comunque la sua linea dura e  lo testimonia anche ai media americani. Intervistato dal Wall street journal e da Bloomberg tv conferma la sua volontà di andare avanti “indipendentemente dalle reazioni”, sindacati compresi. “La riforma del lavoro è una priorità”, dichiara Renzi che esclude, tra le tante cose, anche le elezioni anticipate: “Dobbiamo rispettare assolutamente la scadenza del 2018, sono impegnato a raggiungere questo traguardo. I problemi vanno affrontati, non evitati andando al voto, come si è sempre fatto”.

Renzi parla ai media americani convinto della sua maggioranza e con la consapevolezza che le urne non convengono a nessuno. L’Europa, inoltre, non cambierà in maniera significativa le sue politiche economiche fondate sull’austerity sino a quando Roma non avrà dimostrato di aver attuato concretamente le riforme. “Dobbiamo cambiare l’Italia, altrimenti non possiamo cambiare l’Ue”, ammonisce Renzi confermando la sovranità sulle riforme. Constatando che “l’Europa è bloccata” intorno al derby austerity-crescita  Renzi auspica infine “una nuova leadership capace di visione”.

Sul fronte nazionale la strada da perseguire non sarebbe quella delle facili concessioni sui vincoli di bilancio – il vincolo del 3% va assolutamente rispettato – ma rimboccarsi le maniche per colmare il gap di credibilità accumulato dal nostro Paese. Fatto sta che l’Italia rischia di rinviare, ancora una volta, il raggiungimento del pareggio di bilancio. L’obiettivo fissato dal Fiscal compact al 2015 – e rinviato poi al 2016 – potrebbe slittare ulteriormente al 2017. Nonostante gli sforzi del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per evitare richiami all’Italia – cercando di salvare il semestre di presidenza italiana dell’Ue focalizzato sul rilancio di crescita, investimenti e lavoro – il vicepresidente Jyrki Katainen intenderebbe far slittare a gennaio il piano per 300 miliardi di investimenti promesso da Juncker, depotenziando così il summit di dicembre che rappresenterebbe l’ultimo evento importante del semestre italiano. In assenza dei 300 miliardi la presidenza italiana rischia, in pratica, di concludersi con un nulla di fatto. Il summit di Milano infine, previsto per l’8 ottobre – che il premier Matteo Renzi voleva orientato ad un’ampia discussione su crescita, investimenti e occupazione – sembra sia stato limitato al lavoro su pressione della cancelleria tedesca, azzerando così molte aspettative di novità concrete.

Come testimoniano gli ultimi dati Istat l’economia è ancora ferma. La Nota di aggiornamento del quadro macroeconomico destinata al Consiglio dei ministri di mercoledì primo ottobre dovrebbe certificare, per quest’anno, un’ ulteriore caduta del prodotto interno compresa tra lo 0,2 e lo 0,3%, mentre ad aprile si stimava un più 0,8% e una modesta ripresa nel 2015. Facendo i conti nelle casse dello Stato, invece, la manovra del bonus da 80 euro ai lavoratori dipendenti nel 2015 costerebbe 10 miliardi dei quali solo 2,3 sarebbero coperti dai tagli di spesa già varati, compresi quelli alle auto blu dei ministeri che ora non potranno essere più di cinque per ciascuna amministrazione. Per ridurre ulteriormente l’Irap del 10% servirebbero ben 2,4 miliardi di euro, nonostante le rassicurazioni del ministro Guidi. Le missioni di pace, il cinque per mille, i rinnovi contrattuali delle forze dell’ordine, il rifinanziamento della cassa integrazione sono infine altre spese per coprire le quali sarebbero necessari altri 4/6 miliardi. Senza contare che potrebbero servire fondi aggiuntivi per la scuola e per la riforma degli ammortizzatori sociali che affiancherà quella del lavoro.

Il Jobs act renziano potrebbe inoltre essere osteggiato anche da 40 senatori forzisti che, opponendosi alla riforma, disattenderebbero le indicazioni dell’ex Cavaliere facendo venire meno il “soccorso azzurro” assicurato da Giovanni Toti, a patto che non ci siano “cambiamenti al ribasso”.

Il lavoro, le riforme e l’Europa: sono questi i temi che infiammano il dibattito politico di casa nostra (e non solo) caratterizzato da linee divisorie fuori e dentro i partiti; divisioni che il presidente del Consiglio in carica mira a sradicare partendo dalla riunione di direzione del suo partito di lunedì prossimo.

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