Siria, indignazione e legalità
Il voto della Camera dei Comuni inglese contro un’azione militare in Siria ha, certo, rappresentato una sconfitta politica per il bellicoso Cameron, ma soprattutto – e questa mi pare la chiave di lettura giusta – un chiaro segno della stanchezza dell’opinione pubblica dei principali Paesi occidentali, già impegnati su troppi fronti militari, davanti a nuovi coinvolgimenti in conflitti interni che non ci appartengono, ma ci costano un prezzo molto alto in termini di spesa e sacrifici umani. La stessa stanchezza si è manifestata negli Stati Uniti e contribuisce a motivare la benvenuta prudenza con cui si sta muovendo il Presidente Obama. Quanto all’Italia, il Governo ha preso la posizione giusta, subordinando ogni nostra partecipazione, che comunque non potrebbe che essere di sostegno logistico, a una risoluzione dell’ONU e dichiarando che essa, comunque, non sarebbe automatica neppure in questo caso. Sulla stessa linea sono la Germania e la Spagna. Resta la Francia, al momento la più impaziente, ma ben difficilmente potrà fare qualcosa da sola.
Rimettersi a una decisione dell’ONU – pur sapendo che essa sarà alquanto difficile – non è segno di pavida ipocrisia. Le ragioni sono tanto formali quanto sostanziali. Le stragi perpetrate dal regime di Assad contro la popolazione civile, ora anche, se lo confermeranno gli ispettori dell’ONU, con l’uso barbaro e spietato di armi chimiche, sollevano una profonda e diffusa indignazione, come a suo tempo accadde per analoghe azioni di regimi altrettanto spietati, da quello di Milosevic a quello di Gheddafi o di Mubarak. Nessuno può condonarle e i Paesi occidentali, fieri della loro civiltà, hanno il diritto e il dovere di condannarle e di additare al disprezzo quei Paesi che, come la Russia e la Cina, si mostrano e in realtà sono ad esse cinicamente indifferenti.
La questione è però a chi spetti la competenza di intervenire. E su questo punto non possono esservi dubbi: nel sistema internazionale in cui viviamo, la competenza di decidere azioni militari è solo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa competenza soffre eccezioni in caso di aggressione o minacce di aggressione di un Paese o gruppo di Paesi ad altro Paese o gruppo di Paesi: in questo caso vi è un primario diritto all’autodifesa che si estende a organismi regionali quali, ad esempio, la NATO. Ma in caso di conflitti civili che non mettono in rischio la pace e la sicurezza, e in casi di violazioni anche massicce dei diritti dell’uomo, la competenza è dell’ONU e tale deve restare se non vogliamo tornare a una situazione di caos mondiale. E difatti, la “copertura ONU” è stata sentita come necessaria, e per lo più ottenuta, in alcune nelle principali crisi degli ultimi decenni, dai Balcani all’Afghanistan e laddove non è stata ottenuta, come in Irak, si è trattato, a conti fatti, di un grave errore. Uno o più Paesi, per autorevoli che siano e in qualsiasi formato agiscano, non possono arrogarsi un diritto che spetta all’ONU, anche se lo fanno in nome di sacrosanti principi morali. Hanno il pieno diritto di agire a difesa della sicurezza propria o dei propri alleati, finche sia carente una reazione dell’ONU, ma non quando questa sicurezza non è direttamente chiamata in causa. Aggiungo che tale diritto non spetta neppure a un organismo multilaterale come la NATO.
E a proposito di essa va chiarito un punto: la stampa ha parlato, con la consueta superficialità, di un “via libera” dell’Alleanza ad azioni contro la Siria, riferendosi a dichiarazioni del Segretario Generale Rasmussen. Rasmussen è un autorevole esponente dell’Alleanza, ma non ne esprime la volontà. Questa – anche se il punto pare sfuggire ai tanti commentatori di casa nostra – spetta al Consiglio Atlantico, cioè all’insieme dei Paesi membri che decidono all’unanimità e che non mi pare si siano fino ad ora pronunciati. Lo so bene, per aver rappresentato l’Italia per cinque anni, come lo sa Sergio Romano, che mi aveva preceduto anni prima nell’incarico. La NATO, del resto, si trova attualmente già coinvolta in situazioni che vanno al di là degli scopi fissati dagli articoli 4, 5 e 6 del Trattato di Wahington, come nel caso dell’Afghanistan e non ritengo sia utile e corretto impegnarla oltre misura e fuori dei confini stabiliti dal Trattato. Certo, azioni anche solo aeree contro la Siria dovrebbero con quasi certezza utilizzarne il sostegno logistico, come fu per la Libia, ma non dovrebbero avvenire sotto l’egida atlantica e, comunque, tutto ciò dovrebbe essere oggetto di una decisione comune.
A queste ragioni formali, ma importantissime, si uniscono considerazioni sostanziali. Cosa ci sia dietro la crisi siriana è ancora per moltissimi versi oscuro. Non sappiamo chi muove realmente le fila, né chi si gioverebbe della caduta del regime tutto sommato laico di Assad, un regime che ha mantenuto per quarant’anni la pace con Israele. Ma sappiamo che Al-Qaeda, l’arcinemico dell’Occidente, appoggia i ribelli e minaccia torrenti di sangue contro il regime. Con una sintesi alquanto grezza, possiamo dire che nel conflitto paiono opporsi due schieramenti: l’uno che va dall’Iran, e dal suo braccio regionale Hezbollah, alla Russia, l’altro che fa capo ad Al-Qaeda e forse ai servizi turchi e sauditi. Perché dovremmo mettere il dito in quest’ingranaggio? E con quali obiettivi e con quali piani per il dopo?
Gli Stati Uniti dichiarano di non voler far cadere Assad, cosa che d’altra parte richiederebbe un intervento massiccio e probabilmente con truppe di terra, ma solo di “riequilibrare le forze” a favore dei ribelli (ma ci conviene? E non servirebbe solo a prolungare un bagno di sangue con esiti incerti?). Assad replica: state attenti, non armate quelli che poi colpiranno l’Occidente (non sarebbe la prima volta). E allora? Una semplice azione dimostrativa a scarico di coscienza? Certo, una serie di interventi mirati, con missili, aerei e “drones” potrebbe dare ad Assad e ai suoi una memorabile punizione, che peraltro difficilmente risparmierebbe vittime civili, come è accaduto altrove. E poi?
Purtroppo, qualcosa Obama dovrà pur farlo: l’ha detto troppo e si è in qualche modo legato le mani parlando di “linea rossa” (cosí facendo scattare la vecchia trappola della “credibilità”, che molti guasti ha già prodotto). C’è da credere che, prima di mettere un nuovo dito nel complicato e letale ingranaggio mediorientale, peserà tutti gli elementi in gioco. E che ne misurerà le possibili conseguenze. Crediamolo o, meglio, speriamolo.
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