Cronache dai Palazzi

L’Italia è un Paese che non cresce, ed è così ormai da diversi anni. L’avvertimento arriva dal Fondo monetario internazionale; in particolare Vitor Gaspar, direttore dell’analisi sui conti pubblici del Fmi, durante la presentazione del fiscal monitor sull’Italia ha affermato che “rispettare il limite del 3% sul deficit-Pil è importante perché è un aspetto molto visibile delle regole Ue ma non è un limite assoluto”. L’Italia deve necessariamente affrontare una “sfida importante” sul rilancio della crescita e il pacchetto “molto ampio” di riforme sul quale sta lavorando la squadra di Renzi si può valutare “solo nel suo insieme”. Per colmare il gap di una crescita quasi nulla, da trent’anni a questa parte, “c’è necessità di riforme strutturali complessive – ha rimembrato Gaspar -. Il programma di riforme dell’Italia include misure che hanno a che fare con l’efficienza della Pubblica Amministrazione, con il funzionamento della giustizia, con il lavoro e le tasse sul lavoro, con i mercati dei prodotti e con le privatizzazioni”. Un quadro riassuntivo, quello illustrato da Vitor Gaspar, che prefigura chiaramente le priorità da attuare nel breve periodo altrimenti i politici che siedono ora nei palazzi del potere potrebbero “andare a casa”, come avverte il numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi, dal Brookings Institution di Washington in occasione dei lavori dell’assemblea del Fondo monetario.

Mario Draghi si è soffermato sulla riforma italiana, in particolare quella sul lavoro che ha superato a fatica il varco del Senato registrando un sudato 165 (voti favorevoli) a 111 (contrari). Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha assicurato a sua volta che si tratta di “un risultato molto importante che sarà seguito da altre riforme molto ambiziose”.

Al di là delle speranze e dei buoni auspici, il tasso di disoccupazione in Italia continua a crescere e a rivelarsi deleterio. Il cambio di passo del governo Renzi, che continua a spingere sull’acceleratore, non può da solo bastare a risolvere il dramma prodotto dal problema lavoro.

È necessario un reale cambiamento di sistema per cambiare davvero l’Italia. La squadra di Matteo Renzi sembra non sottrarsi alla sfida: “L’Italia sarà credibile nella sua volontà di riforme – ha sottolineato il premier nell’eurovertice di Milano – solo se porterà a casa quelle che ha promesso da trent’anni e messo in cantiere negli ultimi sei mesi”. Nella legge di Stabilità, che arriverà il 15 ottobre, saranno previsti in particolare “sgravi contributivi per i contratti a tempo indeterminato”, e in tv Renzi assicura che “non aumenteranno le tasse di successione e l’Iva”. Tutte buone intenzioni anche se l’Italia non può essere un cantiere perenne e le impalcature primo o poi andranno smantellate per mostrare la casa che c’è sotto.

“Non credo che la revisione delle regole del lavoro in Italia si tradurrà in massicci licenziamenti – ha affermato invece Mario Draghi a Washington -. Dopo anni di recessione e tassi di disoccupazione elevati, le imprese che hanno voluto e dovuto licenziare lo hanno già fatto”. Il banchiere ha posto l’accento sull’eccessiva flessibilità che non rappresenterebbe una soluzione. “Dal 2002 sono stati fatti contratti molto flessibili, posizione che la crisi ha spazzato via”. È necessario ricominciare ad assumere, anche se la crescita potenziale è ancora troppo bassa per generare, da sola, una significativa riduzione della disoccupazione, ha sottolineato Draghi. I governi devono quindi intervenire con le riforme, consapevoli del fatto che se non lo faranno, se non prenderanno dei seri provvedimenti per far fronte alla disoccupazione crescente, “non saranno rieletti, spariranno dalla scena politica”.

Il presidente della Bce mette il dito nella piaga: “I politici che non aumenteranno i posti non verranno rieletti”. Renzi sembra pronto ad assumersi le responsabilità del caso o comunque il peso della situazione, e di fronte alle telecamere di Rai 2 afferma di non essere preoccupato del consenso, bensì del fatto di “restituire un minimo di dignità all’Italia”. Il risultato numerico 165 a 111 registrato dal Jobs act a Palazzo Madama è giudicato “molto forte” e, nonostante “l’amarezza” per la bagarre verificatasi in Senato, si procede sulla strada delle riforme. “Loro continuano a fare sceneggiate, noi andiamo avanti”, afferma Renzi.

In ogni caso non tutto è negativo; Draghi auspica una ripresa del credito già dall’inizio del 2015, “perché le banche avranno una maggiore capacità di bilancio per i prestiti” e, pur ribadendo che la Bce ha già fatto molto, Draghi afferma che la Banca centrale europea è pronta ad adottare nuove “misure non convenzionali” in caso di necessità; un’affermazione che in America ha lasciato di ghiaccio  gli investitori di Wall Street.

Nella delega al lavoro il contratto a tempo indeterminato sembra diventare la “forma privilegiata” rispetto agli altri tipi di rapporto di lavoro, a partire da quelli a termine resi più flessibili pochi mesi fa. In sostanza l’assunzione a tempo indeterminato sarà incentivata con un taglio dei contributi o dell’Irap, la tassa a carico delle imprese. Per le nuove assunzioni, in particolare, è previsto il contratto a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, con l’obiettivo della “semplificazione, modifica o superamento” della lunga lista di contratti oggi esistenti (oltre 40), riducendo in questo modo i margini per la precarietà.

Le modifiche sui licenziamenti e sull’articolo 18 sono invece rinviati ai decreti delegati, che l’esecutivo dovrà emanare entro sei mesi una volta che il Jobs act sarà legge, in pratica dopo l’approvazione da parte di Montecitorio. Il reintegro nel posto di lavoro resta per i licenziamenti discriminatori, quelli motivati ad esempio dal credo politico o religioso del dipendente, mentre non è previsto per motivi economici, legati alle difficoltà del mercato, e in questo caso entrerà in gioco un indennizzo crescente non l’anzianità di servizio. Per i licenziamenti disciplinari, infine, dovuti al comportamento del lavoratore, non sono molti i casi che dovranno essere specificati nelle norme attuative, con l’intenzione di ridurre al minimo i margini di discrezionalità della giurisprudenza, quei “rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi” ai quali ha accennato il ministro Giuliano Poletti in Aula. Il magistrato sarà comunque chiamato ad accertare i singoli casi registrando, nell’eventualità, una grave violazione da parte dell’azienda.

Nel Partito democratico si infiammano le minoranze ma Renzi incassa i complimenti di Angela Merkel che nel vertice Ue di Milano – un vertice diverso da tutti gli altri, definito “una conferenza ad alto livello sull’occupazione” – assicura maggiore flessibilità ai Paesi che attueranno le riforme dovute. “Pronti a discutere modifiche al sistema”, assicura la cancelliera, che giudica la riforma del lavoro in Italia un “passo importante” mentre i vertici Ue, da Barroso a Van Rompuy e Schulz, le fanno eco. La Germania sarebbe quindi “pronta a cambiare” aprendo ai Paesi che hanno difficoltà di bilancio nell’utilizzo dei fondi europei. “So che ci sono Paesi che lottano per conciliare il rapporto tra deficit e crescita. Bisogna affrontare il problema”, ha sottolineato Angela Merkel. Riferendosi ai progetti finanziati con fondi Ue – che richiedono da parte degli Stati membri una quota nazionale di cofinanziamento (tra 25% e 50%) – Renzi ha comunque rimarcato un “paradosso”. Proprio la quota di “cofinanziamento nazionale dei programmi Ue rischia di farci sforare i parametri”, ha sottolineato Renzi, non favorendo quindi l’impiego dei fondi europei da parte degli Stati in difficoltà finanziaria. In sostanza, ha aggiunto il premier italiano a Milano, “se decidiamo di pagare i debiti della Pubblica Amministrazione, come ci chiede giustamente l’Europa, ci mancano da pagare 3 miliardi di euro per uscire dalla procedura di infrazione. Però se lo facciamo superiamo il 3% e quindi c’è una contraddizione”.

Oltre a premere il tasto delle riforme fatte e da fare per cambiare l’Italia, di fronte ai vertici europei il premier Matteo Renzi ha rivendicato l’orgoglio di un Paese che “rispetta i suoi impegni”, e che vuole quindi essere credibile anche per poter chiedere all’Europa di cambiare un modello economico che si rivela essere

“anacronistico”. “Il modello di sviluppo europeo non può andare avanti in questo modo” e “non va bene nemmeno tutta la sua burocrazia”, ha rimarcato Renzi a Milano. In serata il presidente del Consiglio ha trasferito il suo pensiero anche su Facebook: “Oggi al vertice di Milano ho chiesto di investire sulla crescita. Un’Europa che pensa solo ai vincoli è arida. Un’azienda che non investe è finita. Un Paese che non cambia è morto”.

L’Italia è un Paese con un problema di “reputation”, ha affermato ironicamente (o sarcasticamente) Matteo Renzi, che sul 3% ha detto di conservare comunque le sue idee: “È un vincolo imposto vent’anni fa quando il mondo era diverso”, anche se “rispettare quel limite è una cosa molto positiva”. Un gioco diplomatico, quindi, per cui il premier italiano annuncia una legge di Stabilità con “un limite di deficit al 2,9%”, da varare entro il 15 ottobre e da discutere nel Consiglio europeo di fine mese.

Il rinvio del pareggio di bilancio al 2017 rimane comunque la spina nel fianco, e il prossimo 23 ottobre i falchi di Bruxelles non mancheranno di rimarcarla. In definitiva, il plauso sulle riforme, ancora da ultimare, e l’eventuale 2,9% di deficit molto probabilmente non saranno sufficienti a salvare l’Italia da un’ennesima, anche se momentanea, bocciatura.

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