Tfr in busta paga, la solita coperta corta
Il Senato vota la fiducia sul Job act e il governo tira dritto sulla riforma del lavoro. Mentre resta altissima la tensione sull’articolo 18 (per il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti “il governo intende modificare il regime del reintegro così come previsto dell’articolo 18, eliminandolo per i licenziamenti economici” ), l’altra questione che agita le acque del dibattito politico è il Tfr. Il premier, Matteo Renzi, vorrebbe che finisse in busta paga perché in fin dei conti si tratta di “soldi dei lavoratori”; per Giorgio Squinzi, invece, darlo subito ai lavoratori “danneggia le imprese”.
“Sarebbe bello che il Tfr sia in busta paga dal prossimo anno”. Questa è la sfida di Renzi, nonostante la netta contrarietà di Confindustria. “Il Tfr, la liquidazione, sono soldi dei lavoratori, che però vengono dati tutti insieme alla fine. La filosofia sembra essere protettiva: “te li metto da parte per evitare che tu te li bruci tutti insieme”, ha spiegato il premier nella sua Enews. “Uno Stato-mamma, dunque, che sottilmente fa passare il messaggio di non fidarsi dei lavoratori-figli. Io la vedo diversamente: per me un cittadino è maturo e consapevole. E come accade in tutto il mondo non può essere lo Stato a decidere per lui. Ecco perché mi piacerebbe che dal prossimo anno i soldi del Tfr andassero subito in busta paga mensilmente”.
L’intento del governo è chiaro: dopo il bonus fiscale di 80 euro, altra liquidità in busta paga farebbe comodo per un ulteriore rilancio dei consumi. L’idea, come detto, non piace agli industriali. Secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, “l’unico beneficiario sarebbe il Fisco”. E il numero uno di Confindustria aggiunge: “L’ipotesi sul Tfr in busta paga fa sparire con un solo colpo di penna circa 10-12 miliardi per le imprese italiane, se questa è la strada che si intende seguire la risposta è semplice: no”. Nei giorni scorsi il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha replicato: “Voglio essere molto chiaro sulla posizione del governo: farà questa operazione solo se sarà totalmente neutra per le imprese”. Se per anticipare il Tfr in busta paga ci sarà un qualsiasi peso per le Pmi, il governo “non lo farà”.
In attesa di capire quale trattamento fiscale adottare per chi decidesse di farsi pagare ogni mese con lo stipendio anche parte della liquidazione, c’è da risolvere anche un altro rebus. Cosa fare con i fondi pensione? La faccenda è delicata: oggi sono circa due milioni i lavoratori iscritti ai cosiddetti fondi negoziali, per la maggior parte istituiti all’interno delle categorie professionali. A questo numero, inoltre, occorre aggiungere anche quello dei lavoratori che versano il Tfr in un fondo pensione aperto o in un piano pensionistico individuale. La Covip, la speciale commissione di vigilanza, calcola che la quota di Tfr versata ai fondi sia molto importante, pari a circa 5,2 miliardi di euro l’anno. Chi oggi ha deciso di aprire un fondo pensione ha diritto a prendere prima parte del denaro versato solo in casi particolari, come l’acquisto di una casa o per spese sanitarie. Se Renzi desse loro la possibilità di uscire dal fondo e di sospendere le trattenute, cambierebbe tutto.
La scelta non sarebbe, però, così semplice per il lavoratore che versa anche in un fondo pensione o che è iscritto ad un ente previdenziale di categoria. Negli ultimi anni proprio i fondi di categoria sono quelli che hanno registrato le migliori performance. Senza addentraci in noiose valutazioni fiscali, basti pensare che i rendimenti del Tfr versato nei fondi sono tassati all’11,5 per cento: un’aliquota più bassa rispetto agli altri rendimenti finanziari. E ridotta di molto rispetto a quella che pesa sui redditi da lavoro dipendente, proprio dove finirebbe il Tfr se messo in busta paga. D’accordo dare la possibilità ai lavoratori di scegliere cosa fare dei propri soldi, però l’aspetto fiscale diventa un discrimine. E in questo caso, non da poco.
©Futuro Europa®