Cronache dai Palazzi

I lavori di Camera e Senato procedono a ritmi serrati, anche di sabato e domenica, per licenziare la legge di Stabilità in prima lettura a Montecitorio al massimo entro lunedì (primo dicembre) e entro martedì, o comunque non oltre mercoledì, toccherà a Palazzo Madama approvare in terza e definitiva lettura il Jobs Act licenziato questa settimana dalla Camera, nonostante la burrasca. A salvare, in qualche modo, l’esecutivo di Renzi è stata l’area riformista del Pd che ha votato a favore del provvedimento “per disciplina” pur non condividendone l’“impostazione difettosa”, come ha espresso l’ex segretario Pier Luigi Bersani.

La minoranza dem però non si arrende ed è pronta a portare avanti le sue battaglie. La prima riguarda il Jobs Act, per cui rimane aperta la questione degli ammortizzatori sociali che dovrebbe avere la precedenza temporale rispetto alle modifiche contrattuali. La seconda riguarda la nuova legge elettorale, dato che un emendamento della minoranza del Pd, inserito nelle norme transitorie al disegno di legge di riforma del bicameralismo e del Titolo V, sembra prevedere la possibilità di chiedere che l’Italicum possa essere sottoposto a un giudizio preventivo della Corte Costituzionale. Tra i firmatari Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre. Ed infine l’elezione del nuovo Capo dello Stato che la minoranza dem non intende subire, facendo, al contrario, sentire la propria voce.

La “partita” Quirinale è in fondo la notizia portante di questi giorni, attorno alla quale dovrà essere ridisegnato anche un nuovo percorso per le riforme; un percorso che per certi versi dovrà risultare ancor più accelerato, e si spera non accidentato. Così mentre Renzi assicura la “velocità”, il Capo dello Stato, ancora in carica, esprime la sua preoccupazione per eventuali strappi che conducano dritti alle urne, evidenziando la necessità di una trattativa più proficua sia all’interno della maggioranza sia con le opposizioni.

Definire un nuovo percorso per condurre in porto le due riforme principali, la legge elettorale e il superamento del bicameralismo perfetto, è stato in effetti il tema portante del vertice tra Napolitano e Renzi. “Durante il colloquio – scrive in una nota il Quirinale – è stato ampiamente esposto il percorso che il governo considera possibile e condivisibile con un ampio arco di forze politiche per quello che riguarda l’iter parlamentare dei due provvedimenti fondamentali già a uno stato avanzato di esame, i quali sono incardinati per la seconda lettura. Un percorso che tiene conto di preoccupazioni delle diverse forze politiche, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra legislazione elettorale e riforme costituzionali”.

Il percorso ideale sarebbe il seguente: entro Natale il voto sulla nuova legge elettorale in commissione Affari costituzionali del Senato non trascurando il “lodo Calderoli” – per cui il ritorno al voto con la nuova legge elettorale non può prescindere dalla riforma del bicameralismo – e successivo approdo in Aula a inizio gennaio. Tra il 16 e il 20 dicembre, inoltre, a Montecitorio dovrebbe andare in scena l’esame della “grande riforma costituzionale”. Questo doppio binario permetterebbe a Napolitano di lasciare il Quirinale entro la prima quindicina di gennaio con il Paese “ben avviato” sulla strada delle riforme, con il beneplacito dei mercati e dei partner europei.

In questo modo il varo dell’Italicum, nella migliore delle ipotesi, avverrebbe dopo l’elezione del Capo dello Stato, riflettendo, di conseguenza, gli equilibri parlamentari legati alle turbolenze determinate dalla nomina del nuovo inquilino del Colle. Renzi è comunque convinto di farcela e di concludere l’iter delle riforme entro il primo mese del nuovo anno. “Siamo ad un passo dalla chiusura tra dicembre e gennaio ce la facciamo – ha affermato Renzi di fronte alle telecamere del Tg1 -. E dopo diremo un doppio grazie al presidente”.

Per ora si tratta di fantapolitica, dato che il completamento delle riforme non è ancora realtà e i partiti sono un po’ tutti preda di delicati equilibri interni. In Forza Italia implode il dialogo tra Berlusconi e Fitto che reclama, ancora una volta, le primarie per il centrodestra alle quali anche l’ex Cavaliere dovrebbe sottoporsi.

Fitto diventa così il leader della contestazione che ignora addirittura le raccomandazioni del capo – “Non fare dichiarazioni polemiche alla stampa” – dichiarando di voler “l’azzeramento della classe dirigente” e, pur non disconoscendo il Patto del Nazareno, ribadisce ai  forzisti: “Dobbiamo farci valere, non possiamo accettare  tutto quello che ci viene imposto”. Per Fitto il partito deve cambiare ma senza “improvvisazioni”, e “più che concentrarsi sul centroavanti o sul centrocampista serve una squadra riconoscibile sui contenuti”. Una squadra, in definitiva, il cui leader deve essere scelto con le primarie. L’ex governatore ammette, infine, che “Salvini si è rivelato un ottimo goleador per la Lega e per il centrodestra” ma “ha naturalmente bisogno di un centrocampo che organizzi il gioco, che prepari il gioco e gli passi la palla”. In sostanza “né Forza Renzi né Forza Salvini. Non possiamo essere sempre gregari, ammonisce Fitto, per il quale “è invece indispensabile un rilancio su temi e contenuti a partire dall’economia”.

Per Berlusconi è comunque fondamentale difendere il Patto del Nazareno soprattutto in vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, in sostanza per portare a casa un Capo dello Stato gradito. In fondo anche il premier in carica è convinto che “nessuno potrà consentirsi una crisi politica sulla scelta del presidente della Repubblica”. Per individuare il “profilo più idoneo” Renzi molto probabilmente chiederà la collaborazione di tutte le forze politiche, replicando lo schema adottato quando diede inizio alla stagione delle riforme: una eventuale mossa tattica per trasmettere al Paese l’idea della trasparenza nella selezione del nuovo presidente – al quale dovranno corrispondere delle “caratteristiche” precise: autorevolezza, esperienza, autonomia – e per schivare eventuali agguati di Palazzo.

Per ora le discussioni sul prossimo inquilino del Quirinale rimangono confinate all’interno di teorici “schemi metodologici” anche perché non c’è un candidato forte che metta d’accordo le varie forze politiche né, tantomeno, un ampio blocco in Parlamento in grado di tirare fuori un nome entro i primi tre scrutini  (il quorum per il Colle ai primi tre scrutini corrisponde a 672 deputati). L’obiettivo è eleggere il prossimo presidente alla quarta votazione.

Renzi dovrà inoltre fronteggiare la minoranza interna del suo partito che, dopo il Jobs Act e la nuova legge elettorale, non è disposta ad incassare una terza sconfitta subendo un nome  a proposito di elezione del Capo dello Stato. “Sul Quirinale Renzi dovrà scendere a compromessi”, sembra aver affermato D’Alema, e potrebbe essere proprio l’ex Cavaliere a dettare una direttiva: “Non dev’essere un uomo di partito”.

L’elezione del nuovo presidente della Repubblica rappresenterà comunque un’ennesima prova di forza per la politica italiana già ampiamente sotto osservazione da parte dei partner europei e non solo. Insieme alla Francia, il Financial Times addita l’Italia come il Paese che “più volte nel passato” ha promesso “riforme mai compiute”. Il principale giornale economico-finanziario del Regno Unito si riferisce in particolare all’ennesimo via libera concesso dalla Commissione europea ai Paesi (Francia, Italia e Belgio) che hanno violato il patto di Crescita e Stabilità dell’Unione europea, ma che per ora non verranno puniti da Bruxelles. La Commissione europea “valuterà di nuovo la situazione a inizio marzo 2015” ma il governo italiano “deve compiere ulteriori progressi”. In sostanza è questo l’atteso giudizio sulla legge di Stabilità che sta procedendo alla Camera, ma si tratta di un via libera momentaneo legato, tra l’altro, ad un impegno per l’Italia a fare di più, schivando in questo il “rischio di non conformità” con il Patto di Stabilità.

Il premier Renzi continua comunque a spingere sull’acceleratore e insiste affermando: “Dal primo gennaio nessuno potrà più dirci che dobbiamo fare i compiti a casa” e per questo “sulla flessibilità saremo più duri”, in Europa. Per Matteo Renzi “nel momento in cui l’Italia avrà fatto il primo passaggio corposo  di riforme e sarà finalmente chiaro che lo sforzo riformatore italiano produce risultati davvero rilevanti, sarà molto più facile anche utilizzare nella discussione europea le stesse parole che abbiamo utilizzato fino a oggi: investimenti, crescita, lotta a un’idea fissa di patto di Stabilità”. È necessario però portare a casa “un po’ di risultati” perché ciò “dà più forza” all’Italia. In un incontro al Quirinale, il presidente Giorgio Napolitano, da sempre convinto europeista, ha infine ribadito che la dominante “tematica delle politiche economiche e sociali dell’Europa” rischia di offuscare “altre fondamentali questioni” che uniscono i Paesi dell’Unione fin dalle sue origini. “L’Europa – ha sottolineato il presidente della Repubblica – ha dato il meglio di sé nella misura in cui è riuscita a rappresentare ciò che la unisce da secoli, come la cultura”. Assorbendo “totalmente l’attenzione spesso attraverso distorsioni e drammatizzazioni oltre limite”, le difficoltà dell’Eurozona e la recessione che continua a mordere rischiano di mettere in discussione l’impianto stesso dell’Unione europea e le ragioni dello stare insieme. Sulla stessa lunghezza d’onda Matteo Renzi: per il premier l’Europa deve “tornare ad essere se stessa, un luogo di ideali e di passioni” ma ciò non vuol dire non fare le riforme.

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