Rimassa (IED): innovazione e startup motore di cambiamento

Da un po’ di anni a questa parte, con la complicità dei media, si è venuta a creare un’attenzione quasi morbosa alle materie economiche e finanziarie; spread, rating, indicatori di performance sono ormai termini ricorrenti nei nostri telegiornali, ma se invece la chiave per ripartire fosse rimettere al centro l’uomo? Con questa provocazione abbiamo intervistato Alessandro Rimassa, Direttore della Scuola di Management e Comunicazione di IED (Istituto Europeo di Design), ma anche giornalista e apprezzato scrittore con tanti successi editoriali alle spalle tra cui “Generazione Mille Euro” (Rizzoli), libro cult tradotto in sette lingue da cui è stato tratto l’omonimo film. Nel suo ultimo best seller, “E’ facile cambiare l’Italia se sai come farlo” (Hoepli) teorizza in dieci comandamenti la sua personale ricetta anti-crisi, che è prima di tutto – precisa lui – culturale. Ecco che cosa ci ha raccontato.

Nel tuo libro parli di human-centered society. Ci spieghi meglio che cosa intendi con questo concetto?

La società in cui viviamo è una società che ha messo da parte l’uomo. Ha fatto di quello che siamo un atto marginale, mettendo invece al centro solo e soltanto l’economia. Con questo non voglio dire che l’economia non sia importante, ma piuttosto che il suo peso e la sua rilevanza debbano essere ridimensionati. Oggi c’è un nuovo modo fare business e di registrare il successo economico; pensiamo per esempio a società come Uber e Airbnb, che stanno costruendo il loro successo proprio sul concetto di sharing economy. In questo scenario diventa dunque cruciale rimettere l’essere umano al centro, passare da una money-centered economy (ossia un mondo totalmente assoggettato al paradigma economico) a un nuovo modo di concepire la società, in cui prima di tutto venga l’uomo, con i suoi valori e la sua capacità di relazionarsi con altri esseri umani – anche per raggiungere il successo, perché no, purché però quest’ultimo sia sempre inclusivo e mai esclusivo.

Cosa vuol dire per te fare innovazione?

Il concetto di innovazione è sempre esisto, è una costante nella storia dell’uomo e dell’umanità. L’unica differenza è che, rispetto al passato, se ne sente parlare più frequentemente soprattutto in relazione all’impatto che esso determina per la collettività. In realtà, l’innovazione non è mai un gioco a costo zero: comporta vantaggi per la collettività, ma per contro anche svantaggi per le singole categorie professionali. Oggigiorno l’innovazione è però un processo ineluttabile, non si può scegliere se innovare o non innovare; se si sceglie la via della conservazione vuol dire che saranno altri a innovare e quindi a spazzare via le nostre aziende, i nostri modelli, le nostre persone.

Stiamo vivendo un momento storico caratterizzato da grandi cambiamenti digitali, in cui l’innovazione non si può più far attendere. Immaginiamo metaforicamente di trovarci ai margini di un fiume, che continua a riempirsi d’acqua. Siamo di fronte a un bivio: o ci buttiamo e proviamo a nuotare o rimaniamo ai margini a guardare l’acqua che s’ingrossa, rischiando presto o tardi di essere travolti. Questo per dire che bisogna rischiare, essere predisposti a cambiare, trovare continuamente nuove strade ed essere parte dell’innovazione. È facile? No, è difficilissimo. Possiamo attendere? No, perché altrimenti qualcun altro lo farò al posto nostro, erodendo ogni possibile vantaggio competitivo.

Tradizione e innovazione possono coesistere?

Se la tradizione è concepita come conservazione dell’esistente, allora non può convivere con il concetto stesso d’innovazione; se invece è intesa come rispetto delle specificità di un paese, territorio o popolo in questo caso la risposta è assolutamente “sì”. Pensiamo per esempio al settore turistico, dove la promozione delle località italiane si deve accompagnare a un adeguamento dell’offerta in termini di servizi e migliore relazione con il cliente. L’innovazione supporta la tradizione laddove quest’ultima va a vantaggio degli utenti finali.

In che misura le nuove tecnologie e i social networks possono secondo te contribuire al cambiamento culturale di cui parli?

In tutto e in nessun modo. La tecnologia è un abilitatore, mentre la rete un amplificatore, un luogo in cui ci si può relazionare, discutere ed esprimere se stessi. Offrono maggiori possibilità di conoscenza, informazione e connessione ma sono comunque mezzi, che non vanno confusi con il risultato.

Dopo il successo di “E’ facile cambiare l’Italia se sai come farlo” quali sono i tuoi prossimi progetti?

Ogni settimana firmo la rubrica “Startup” di Sette, il magazine del Corriere della Sera, e conduco il programma “Generazione S” in onda su Sky (canale La3), dove racconto storie di chi fa impresa e innovazione in Italia con l’intento di costruire una letteratura di esempi ispirazionali, aspirazionali e motivazionali. Le testimonianze raccolte confluiranno poi nel mio prossimo libro, in uscita l’anno prossimo.

Ma perché un libro sulle startup?

Viviamo in un’epoca che è solo paura, negatività e impossibilità; la realtà non è però solo questa, ma è fatta anche di moltissimi giovani che – certamente non senza difficoltà – stanno provando a costruire un mondo nuovo. Vogliamo smettere di dire che ci sono solo cose che non funzionano, dobbiamo immaginarci come protagonisti di un cambiamento possibile. Con la perenne illustrazione di esempi negativi, va in scena non tanto il racconto di un Paese, ma solamente la sua distruzione. Per uscire dalla crisi e creare un clima di fiducia, bisogna invece partire da esempi positivi.    

Chi vuole fare innovazione o avviare un’attività imprenditoriale non deve necessariamente andare all’estero, può farlo anche Italia e la dimostrazione sono le tante persone che ci credono e che, malgrado tutto, ci stanno provando. A me piacerebbe costruire un’Italia in cui per ogni italiano che si trasferisca in un altro Paese, ci sia uno straniero che decida di rimanere. Gli esempi positivi non sono la soluzione, ma sono un punto di partenza, che può dare indicazione alla politica su quali siano i campi d’azione da percorrere.

©Futuro Europa®

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